Le feste ischitane tra culto e folklore
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La pietra del palmento (a prèta lu palemiente). Prima del torchio attualmente in uso, probabilmente fin dagli anni 1930-40, la pigiatura dell’uva si concludeva con l’uso della pietra del palmento per ricavare le ultime gocce di mosto. Si trattava di un masso di tufo verde o di pietra lavica, generalmente scalpellato a forma cilindrica con un foro orizzontale e un altro corrispondente verso il centro in alto.
La pigiatura (carcà) nel palmento terminava con il cosiddetto “murille” (muretto), cioè dopo che era stato più volte prelevato il mosto, facendolo scorrere nel palmento sottostante (di basso), l’uva sempre più ridotta veniva ammucchiata con maestria da una persona addetta con colpi di forcone (cincurenza) ad una parete, mentre gli operai a piedi uniti ad ogni passo, procedendo lateralmente, formavano appunto un mucchio di raspi. bucce e semi della larghezza di circa un metro ed a forma di muro.
La “munaccia” (così era detto il residuo dell’uva pigiata) rimaneva per alcune ore o per una nottata, perché continuasse a prosciugarsi. In seguito, finalmente, si procedeva all’ultima operazione con l’uso della pietra del palmento. Secondo le testimonianze recepite c’erano due sistemi. Alcuni contadini, posta sul mucchio di “munaccia” una base di tavole, vi adagiavano sopra la pietra che con il suo peso faceva sgorgare l’ultimo liquore. Per sollevarla si servivano di paletti di legno e di funi che passavano attraverso anelli fissati nella volta del palmento. Secondo l’altro e più diffuso sistema, al centro del palmento veniva ammucchiata la “munaccia” e poi sulla sommità si poneva una serie di tavole su cui passava un robusto palo che aveva la sua sede di appoggio nella “fenestella” (pietra scolpita ed incassata nella parete del palmento; le fenestelle erano due, ad altezza diversa).
Il palo era collegato alla pietra all’esterno del palmento da una corda che, partendo da un asse posto nel buco orizzontale, raggiungeva un argano fissato sul palo stesso detto “mulanielle” che, azionato a mano, lentamente sollevava la pietra. Il palo in tal modo richiamato verso terra pressava le tavole poste sulla “munaccia”, da cui sgorgava l’ultimo mosto che veniva raccolto nel palmento di basso e poi distribuito nei carrati per dare colore e sapore al vino. La pietra si teneva in trazione per alcune ore.
A Lacco Ameno era detta “ a prèta lu palemiente” e così anche negli altri Comuni dell’isola e sia pure con qualche sfumatura diversa nelle altre isole campane e pontine. Il suo uso fu superato dal torchio che comparve già negli anni 1920-30, ma soltanto presso cantine importanti di pos- sidenti; non tutti i contadini ebbero la possibilità di acquistarlo, perciò la pietra fu usata anche successivamente fino ad essere a mano a mano superata del tutto alla fine degli anni 40.
Oggi è ancora possibile vedere queste pietre presso vecchi cellai, ma soprattutto come pietre ornamentali nei giardini di moltissime ville dell’isola e costituiscono una delle testimonianze più concrete per comprendere quanto fosse diffusa la viticoltura nell’isola d’Ischia ed anche per capire quanto fosse ingegnoso e duro il lavoro dei nostri padri. Era un tempo in uso il detto foriano: “Sì na prèta e palmiente”, per qualificare una persona pesante, prolissa, poco disponibile.
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