Ischia, l'isola senza tempo. Parola di Truman Capote
Ho sempre pensato che le isole sono come delle grosse navi tenute permanentemente all’àncora. Metterci il piede sopra è come cominciare a salire sulla passerella che unisce la nave alla terraferma: si è subito presi da un senso di meraviglioso isolamento e sembra che lì niente ci possa raggiungere e nulla ci possa accadere, né di brutto né di spiacevole. Perciò, quando la «Principessa» cominciò ad avvicinarsi a Porto d’Ischia e noi potemmo scorgere meglio la riva, fu bello e commovente come sentire il battito del proprio cuore
Sono tanti gli scrittori che hanno scritto belle pagine sull'isola di Ischia.
Tra questi Truman Capote che venne ad Ischia sul finire degli anni '40. Capote scrive un lungo reportage su Ischia che venne pubblicato con il titolo " L'isola senza tempo" su L'Europeo del 2 luglio 1950. In questo lungo scritto emerge il volto di un'isola ancora in parte selvaggia, di cui anche in America " si parlava molto " ma che pochi realmente avevano visto.
Ecco che Truman Capote decide di fare tappa sull'isola – precisamente a Forio – nel suo grand tour in Italia. E scrive:
Dopo tanti discorsi lasciammo Napoli con un po’ di apprensione. Era una giornata meravigliosa, forse un po’ freddina per quei posti, dato che si era in marzo, ma allegra e vivace come un aquilone in cielo, e la «Principessa» filava svelta e sicura spruzzando acqua di qua e di là come un delfino burlone.
La «Principessa» è un’imbarcazione piccola, ma comoda, con un bar minuscolo e ben fornito e una clientela che è veramente fra le più strane: condannati alla galera diretta al penitenziario di Procida oppure giovani che stanno per entrare nel monastero di Ischia.
Naturalmente c’è anche della gente comune: isolani che sono andati a fare le spese a Napoli, per esempio, e di quando in quando qualche straniero.
Ho sempre pensato che le isole sono come delle grosse navi tenute permanentemente all’ancora.
Metterci il piede sopra è come cominciare a salire sulla passerella che unisce la nave alla terraferma: si è subito presi da un senso di meraviglioso isolamento e sembra che lì niente ci possa raggiungere e nulla ci possa accadere, né di brutto né di spiacevole. Perciò, quando la «Principessa» cominciò ad avvicinarsi a Porto d’Ischia e noi potemmo scorgere meglio la riva, fu bello e commovente come sentire il battito del proprio cuore.
Intanto, nella confusione dello sbarco, l’orologio mi cadde a terra e mi si ruppe. La cosa era troppo significativa: subito mi fu chiaro che Ischia non è un posto dove sia necessario avere una nozione esatta del tempo. Ma del resto le isole non lo sono mai.
Se non sbaglio si può dire che Porto è la capitale di Ischia. In ogni modo è senz’altro il paese più grande ed è ancora un posto alla moda.
La maggior parte delle persone, una volta che ci hanno messo piede, se ne allontanano difficilmente, perché Porto ha degli ottimi alberghi, delle belle spiagge e, appollaiato al largo, come uno sparviero gigante, il Castello rinascimentale di Vittoria Colonna.
Gli altri tre paesi sono più rustici. Sono Lacco Ameno, Casamicciola e, sulla punta estrema dell’isola, Forio. Noi decidemmo di fermarci a Forio. Ci dirigemmo alla volta di Forio verso il crepuscolo, mentre in cielo cominciavano a brillare le prime stelle.
La strada si inerpicava alta su per la collina e nel mare giù in basso scorgemmo le barche da pesca, illuminate dalle torce, che strisciavano lentamente come grossi ragni di mare. Di quando in quando qualche pipistrello passava sopra le nostre teste. Poi, nell’aria che imbruniva, udimmo delle voci: buona sera, buona sera, e il muoversi lento dei greggi che belavano come flauti arrugginiti.
Intanto la nostra carrozza attraversava le piazze dei villaggi. Non c’era luce elettrica e il lume delle candele e delle lampade a petrolio illuminava le facce degli uomini seduti ai caffè. Due ragazzi ci seguirono nell’oscurità, oltre il paese. Quando imboccammo una salita erta e scoscesa riuscirono finalmente, col fiato mozzo, ad attaccarsi alla carrozza e dalle froge del cavallo, mentre ci si avvicinava alla cima, uscì una fumosa striscia bianca.
L’aria era più fredda. Il vetturino agitò la frusta e il cavallo si mosse più svelto, mentre i ragazzi ci additavano qualcosa; guardate. Era Forio, distante, bianca di luna, con il mare che gli gorgogliava torno torno, mentre un suono di campane si alzava improvviso nell’aria come uno stormo di uccelli. «Molto bella?» chiese il vetturino, «molto bella?» domandarono i bambini!
Quando uno rilegge un diario sono gli appunti meno importanti, scarabocchiati in fretta su qualsiasi pezzo di carta, che scavano un esempio:
Oggi Gioconda ha lasciato in camera delle striscioline di carta colorata. Cosa sono? Un regalo? Forse le ho dato quella bottiglia di acqua di colonia? Questi fogliettini li userò come segnalibro». Ed ecco l’eco. Prima di tutto Gioconda. È una bella ragazza, sebbene la sua bellezza dipenda in gran parte dal suo stato d’animo.
Quando è di cattivo umore (e questo accade anche troppo spesso) sembra una scodella di minestra fredda. Allora uno dimentica anche la magnificenza dei suoi capelli e la dolcezza dei suoi occhi mediterranei. Dio sa se questa ragazza lavori: qui alla pensione fa servizio di tavola e si occupa anche delle camere, il che vuol dire che si alza prima dell’alba e molte volte è ancora in piedi fino alla mezzanotte. Ma a dir la verità si può considerare fortunata, perché la disoccupazione è la piaga dell’isola e quasi tutte le ragazze di qui sarebbero ben felici di prendere il suo posto.
La nostra è la migliore «pensione» di Forio. Il vitto è buono ed anche troppo abbondante: sia a colazione che a cena cinque portate e vino, e tutto compreso viene a costare ad ognuno di noi circa cento dollari al mese.
Gioconda non parla inglese e il mio italiano, bene, meglio non pensarci.
Ciononostante siamo amiconi. Con l’uso delle mani e di un vocabolario riusciamo a farci capire benissimo, ma questa è anche la ragione perché i nostri dolci sono sempre un disastro. Quando il tempo è nuvoloso e non c’è proprio niente da fare ci sediamo fuori della cucina e ci divertiamo a preparare dolci americani che non riescono mai perché siamo sempre troppo occupati a scartabellare il dizionario per tenere conto del giusto punto di cottura delle nostre torte.
Dice Gioconda: «L’anno scorso, proprio nella stanza che ora occupa lei, c’era un signore di Roma. Roma è davvero così bella come diceva lui? Mi disse che dovevo andare a trovarlo e che non c’era niente di male perché lui aveva fatto tre guerre: la prima guerra mondiale, la seconda e quella di Abissinia. Lei capisce come era vecchio.
No, io a Roma non ci sono stata mai. Ho degli amici che ci sono stati, però, e mi hanno mandato anche delle cartoline. Lei la conosce quella donna che è impiegata alla posta? E nel malocchio ci crede? Lei è di quelle che danno il malocchio. Del resto lo sanno tutti, sa, e questa è anche la ragione perché io non ricevo lettere dall’Argentina.
La vera infelicità di Gioconda è il non ricevere lettere dall’Argentina. Forse un fidanzato infedele? Non ne ho idea, perché lei si rifiuta di parlarne. Quella di raccogliere la posta è un’occupazione che mi sono trovato da solo ed è appunto per questo che la mattina mi incontro con gli altri americani che vivono qui. Per il momento non sono che quattro e ci vediamo in piazza al Caffè di Maria (i miei appunti dicono: «Tutti noi sappiamo che Maria allunga il vino. Ma l’allunga con l’acqua?».
Non c’è un posto migliore per aspettare il postino che star qui seduti, al sole, mentre la tenda di canne del caffè tintinna nella brezza mattutina. Maria è una donna tozza, con una faccia di zingara, e sembra che non se la prenda di niente. Ma se c’è qualche cosa di cui uno ha bisogno, da una casa ad un pacchetto di sigarette americane, lei sa come procurarvelo. Dicono anche che sia la persona più ricca di Forio.
Nel suo caffè non si vede mai una donna. Ma dubito che Maria lo permetterebbe. Intanto, quando ci si avvicina a mezzogiorno, tutto il paese si riversa in piazza: i ragazzi escono da scuola con dei grembiuli neri che li fanno assomigliare a tanti piccoli corvi, con gli zoccoli ai piedi, e si affollano rumorosi nei vicoli; dove gli uomini che non hanno niente da fare sostano sotto gli alberi e parlano e ridono mentre le donne che passano di lì abbassano pudiche gli occhi a terra.
Poi arriva il postino che mi dà tutta la posta della pensione e allora io mi incammino verso la collina dove mi aspetta Gioconda. Qualche volta mi guarda come se fosse colpa mia se non riceve mai nessuna lettera e come se fossi io a dare il malocchio. Un giorno, anzi, mi disse che non mi azzardassi a tornare a mani vuote e fu allora che le portai una bottiglietta di colonia. Ma le striscioline di carta colorata che avevo trovato in camera mia non erano (come avevo pensato io) un regalino che volesse contraccambiare il mio.
Quei fogliettini multicolori dovevano essere gettati sopra la statua della Vergine che, arrivata lì da poco, sarebbe stata portata in processione attraverso quasi tutta l’isola. Il giorno che la Madonna doveva passare da Forio tutti i balconi erano stati addobbati con drappi e con trine e qualcuno che era molto povero e non aveva niente di bello da mettere in mostra aveva tirato fuori anche le sopraccoperte. Nelle strade avevano messo dei festoni di fiori fatti di cartavelina colorata, qualche signora aveva tirato fuori i vecchi scialli, gli uomini si erano pettinati i baffi, qualcuno aveva fatto indossare una camicia di bucato a uno dei due idioti del paese e i ragazzi, vestiti tutti di bianco, avevano le ali da angelo fatte di cartone dorato e legate strette alle spalle.
La processione doveva arrivare in paese e passare di sotto alle nostre finestre verso le quattro e noi a quell’ora, istruiti da Gioconda, eravamo già ai nostri posti, con le striscioline in mano, pronti a gettarle di sotto e a gridare, come ci avevano insegnato, «Viva la Vergine Immacolata». Nel frattempo si era messo a piovere e cadeva un’acquerugiola fitta e uggiosa, mentre l’aria cominciava a farsi scura perché si era già vicini alle sei, ma noi rimanemmo imperterriti ai nostri posti come la folla che gremiva la strada di sotto.
Poi arrivò un prete in motocicletta con la faccia aggrottata e la tonaca che gli svolazzava intorno: era stato mandato per dire a quelli della processione di accelerare il passo. Intanto si era fatto buio completo e allora qualcuno pensò di disporre una tremolante striscia di lumi a petrolio lungo tutto il percorso della processione.
Poi, tutto d’un tratto, udimmo le note di una banda militare: ci sentimmo eccitati e ci parve che anche i lumi si rianimassero improvvisamente per rendere omaggio alla Vergine che arrivava. Dondolando leggermente avanti e indietro, ritta su di una portantina ricoperta di fiori, con la testa avvolta in un velo nero e seguita da una buona parte della popolazione dell’isola arrivò la Madonna tutta ricoperta dalla cima ai piedi di orologi d’oro e d’argento. Quando si avvicinò, si fece un gran silenzio, rotto soltanto dal rumore strano e affascinante di tutte quelle offerte: tic tac, tic-tac. Più tardi Gioconda ci doveva trovare con i fogliolini di carta ancora stretti in mano: per l’emozione ci eravamo scordati di gettarli di sotto.
«5 Aprile. Una passeggiata lunga e pericolosa. Abbiamo scoperto una nuova spiaggia».
Ischia è un’isola nuda e pietrosa che ricorda molto la Grecia o la costa africana. Ci sono molti alberi di aranci e di limoni e su per i fianchi delle colline si vedono filari di viti.
Infatti il vino d’Ischia è famoso ed è qui che fanno il Lacrima Christi. Basta uscire appena dal paese, infatti, che ci si sente subito in aperta campagna e allora si può imboccare uno dei tanti viottoli che si inerpicano su in mezzo ai filari dove ci sono interi sciami di api e dove le lucertole si cuociono al sole sulle foglie che stanno per germogliare.
La gente di qui è massiccia e cotta dal sole e tutti, poi, hanno gli occhi speciali dei marinai: occhi di chi è abituato a guardare lontano. E anche loro infatti hanno sempre il mare d’intorno. Il sentiero vicino al mare è intersecato, di quando in quando, da rocce di natura vulcanica e ci sono dei punti in cui è meglio senz’altro chiudere gli occhi: gli scogli di sotto, scuri ed enormi, sembrano dinosauri addormentati.
Un giorno, mentre camminavamo tra le rocce, trovammo un papavero, poi un altro e un altro ancora: crescevano uno qui e uno là in mezzo alla pietra arcigna e grigia. Così, per voler cogliere i papaveri, ci trovammo tutto a un tratto di fronte ad una spiaggetta nascosta in mezzo alle rocce e l’acqua in quel punto era così limpida che potevamo scorgere anche la vegetazione subacquea e i pesci che si muovevano con movimenti bruschi e decisi. Non molto lontano dalla riva vedemmo degli scogli piatti e levigati che sembravano zatteroni natanti e noi andammo da uno all’altro sguazzando nell’acqua e poi sdraiandoci al sole.
E di lì, se rivolgevamo lo sguardo nel verso della terra e al di là delle rocce, vedevamo i filari di viti torno torno alla collina coltivata a terrazzi e poi, più in alto, il cocuzzolo della montagna. Su uno di quei massi enormi il mare aveva scavato un sedile dove noi ci sedemmo felici, lasciando che le onde ci venissero addosso e ci scavalcassero.
Ma a dire il vero, non è difficile trovare una spiaggetta privata, qui ad Ischia, ed anch’io ne conosco tre in cui non va nessuno.
La spiaggia di Forio è disseminata di reti da pesca e di barche capovolte e fu qui che vidi per la prima volta la famiglia Mussolini. La vedova del dittatore vive nell’isola insieme a tre dei suoi figliuoli in una specie di esilio volontario, direi, e il solo vederli suscita sempre, a parer mio, qualcosa di molto triste e commovente. La figlia è giovane, bionda e zoppa, ma apparentemente molto spiritosa perché mi accorgo che quando i giovanotti del posto sono con lei sulla spiaggia ridono sempre di cuore.
Madama Mussolini è sempre vestita di nero e molto poveramente come tutte le altre donne dell’isola, e spesso le si vede incamminarsi faticosamente su per la salita con la borsa piena che la fa camminare tutta sbilenca. La sua faccia non ha quasi espressione, ma una volta la vidi sorridere e fu quando in paese arrivò un uomo con un pappagallo che pescava le piante della fortuna da un vaso di vetro. Madama Mussolini si fermò per consultarlo e dopo aver letto il suo futuro vidi le sue labbra atteggiarsi in un sorriso impercettibile che aveva qualcosa di leonardesco.
«5 Giugno. Il pomeriggio è come una notte bianca di luna».
Ora che è davvero caldo, i pomeriggi sono come notti bianche: le finestre hanno le persiane abbassate e soltanto il sonno regna nelle strade. I negozi riapriranno soltanto alle cinque, quando anche la folla si radunerà nel porto ad aspettare la «Principessa», e solo più tardi tutti si riverseranno in piazza dove c’è sempre qualcuno che suona la fisarmonica o la chitarra.
Ma ora tutti sono a riposare e non c’è che il cielo, di un azzurro smagliante, e il canto di un gallo. Qui in paese ci sono due poveri idioti che sono grandi amici e uno dei due tiene sempre in mano un mazzo di fiori che però divide premurosamente in parti uguali non appena incontra il suo compagno. Nei pomeriggi assolati non ci sono che loro per le strade.
Camminano dandosi la mano, con il loro mazzettino di fiori, e vanno su e giù per la spiaggia, e talvolta arrivano fino al muro di pietra che si protende nell’acqua. Io li vedo dal mio balcone, seduti fra le reti e le barche, con le teste rasate che luccicano al sole e gli occhi senza colore. Questi pomeriggi assolati sembrano fatti per loro e in quelle ore essi solo sono i veri padroni dell’isola.
Da quando siamo arrivati qui -e ormai sono quasi quattro mesi- abbiamo seguito tutto il corso della primavera. Le notti si sono fatte più calde, il mare più calmo, l’acqua -da verde che era- si è fatta blu cupa e le viti, prima grigie e spoglie sui loro viticci attorcigliati, si sono ornate dei primi grappoli verdi e acerbi. Si vedono volare le farfalle e in giardino, dopo che è piovuto, talvolta pare quasi di udire il rumore dei primi fiori che spuntano. Noi ci svegliamo più presto -e questo è un segno dell’estate- ma la sera non ci decidiamo mai ad andare a letto, e anche questo è un altro segno.
Però non è facile rientrare in casa con queste nottate: la luna è più vicina e si specchia nell’acqua con una lucentezza nuova e meravigliosa e lungo il parapetto della chiesa dei pescatori, che punta verso il mare come la prua di una nave, giovanotti e ragazze passeggiano avanti e indietro, bisbigliando, parlando sommessi, e poi si spingono fino alla piazza e spesso anche più lontano, in qualche angolo nascosta. Gioconda dice che questa è la primavera più lunga che lei ricordi e la più lunga è sempre anche la più bella.
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