Architettura rurale: le case nella pietra dell'isola di Ischia
Grazia frugale a colpi di scalpello nella roccia, minimalismo obbligato. Finestre nessuna, un arco e qualche tronco di castagno, unica apertura: l’uscio. Una vasca scavata tra i massi per la raccolta di acqua, dove ora crescono strane miniature di piante. Un fosso profondo per conservare la neve o i conigli. Né telefono, né tv. Il crepitio di un fuoco, la notte, il fruscio di alberi e animaletti. È tutto. Quando si vive nel bosco si può fare a meno del superfluo!
Elementi del paesaggio: le case rupestri articolo di Anna Pilato tratto da La Rassegna di Ischia
p>Felsenhäuser, case di pietra. Cosi Paolo Buchner definisce le antiche dimore ischitane, integralmente scavate nel tufo e che, scomposte nei loro vari elementi, si manifestano come tante opere di scultura, essenziali, pure, moderne. Si tratta di elementi quanto mai pratici e funzionali, ma non per questo meno spontanei e vitali. Rarissimo esempio in tutta Italia, se non l’unico, la casa rupestre ischitana merita un particolare accenno, proprio per quel senso di unità interpretativa, raggiunta inconsapevolmente modellando un materiale amico, il tufo, nella cui utilizzazione si avverte la disperazione, mitigata da una ricchezza interiore, mai compromessa, mai intaccata.
Focolari, piani di appoggio, ganci pendenti dalla bassa volta, nicchiette per la posa del lume, scale, camini, è tutto «scavato», ottenuto attraverso il tufo locale, così luminoso.
Ed è soltanto una mano, quella del contadino, a lavorarlo giorno per giorno, tenacemente. Viene fuori la propria natura, inevitabilmente, con quegli aspetti così poetici e candidi, sempre tenuti dentro, mai manifestati, per infinite motivazioni. E la casa, sia pure rupestre, nel suo naturale compito di protezione, li sprigiona dalle mani del contadino, come un momento di resa, una pausa.
Il tufo presente nell’isola, nella zona che va da NO a SO, rivelava oltre tutto delle qualità eccezionali, e non solo come dimora, ma anche come sistema di conser-vazione del vino. Fresco d’estate, sprigionava nei freddi mesi dell’inverno il calore assorbito nell’estate, rendendone meno duri i rigori. E il vino, poi, tenuto nei cellai entro le botti di castagno, «quando lo spillano» dice il Maiuri «ed esce da quel tenebrore, ha ancora tanto sole e calore da risplendere ambrato».
La Falanga, un piano boscoso sotto la parete occidentale dell’Epomeo, è la zona in cui questo tipo di dimora si realizzò in molti esemplari, oggi abbandonati per la maggior parte.
Alcuni cellai, per lo più in prossimità di strade, hanno trovato una più attuale utilizzazione, ad esempio come deposito, garage, stalla od altro. Ma la Falanga non è l’unica zona ricca di case rupestri: molti rilievi collinosi del monte Epomeo ne portano tracce, ma in forma più abbozzata, e più distanziate l’una dall’altra. Esistono anche espressioni rupestri di carattere religioso, come S. Maria al Monte e, la più famosa, l’Eremo di San Nicola sulla cima del’Epomeo.
Anche le cisterne nella casa rupestre venivano «scavate» e l’acqua mediante un valido sistema di canalizzazione, esso pure «scavato», giungeva ad esse. Veniva saggiamente sfruttata la pendenza del monte. L’acqua piovana, attraverso i canali «tracciati» era deviata nelle cisterne, per lo più esterne, a volte interne alla casa. Canaletti sulle finestre servivano ad evitare che la pioggia penetrasse all’interno, altri più larghi convogliavano le acque direttamente nelle vasche di tufo adibite ad abbeveratoi per il bestiame, a lavatoi. Ed ancora più incredibile, in alcune case un canale sotto il livello del terreno e rivestito di legno di castagno passava, prima di sfociare nella grande cisterna, attraverso gli ambienti cui necessitava l’acqua, secondo un concetto di moderna funzionalità. Alla pietra tufacea solo raramente troviamo accostato, come unico elemento di contrasto, il legno di castagno, a chiusura di finestre e di porte.
All’ingresso delle case signorili ischitane del secolo scorso si trovava sempre il classico paletto di pietra lavica per legarvi i cavalli. Anche in quelle rupestri c’è, ma di tufo, parte integrante di una più grande scultura, la casa stessa. Queste case, sorte per rifugio montano, per sosta nei momenti del raccolto, o per capanno degli attrezzi agricoli, non si sono mai rivelate in contraddizione con quello che abbiamo visto nelle successive espressioni architettoniche, in particolare mediterranee.
La funzionalità non ne ha mai ucciso la bellezza, e la esigua disponibilità di mezzi non ha mai bloccato le mani del contadino in un compromesso con il valore umano dell’abitazione. Dell’Eremo di S. Nicola il d’Ascia diceva che esso «può solo essere ammirato ma non descritto». Sulla parte occidentale dell’isola, a 410 metri si apre la terrazza «scolpita» di Santa Maria al Monte: le colonne che sorreggono la navata e l’altare sono scavati nel tufo. Altre dimore ricavate dalla roccia si trovano in altre zone dell’isola, al Fango, a Montecorvo, al Ciglio; a Calimero ve ne sono altre ricavate da coltri detritiche, quasi tutte abbandonate.
Questo bell'articolo della studiosa locale di storia e letteratura Anna Pilato descrive bene il fascino che queste proto-abitazioni hanno ancora su chi le osserva. Sono esempi rari e incantevoli di archietttura ruprestre. Venendo in vacanza ad Ischia vale la pena compiere un percorso a metà tra cultura e natura alla ricerca delle case nella pietra dell'isola di Ischia.
Franceso Mancini nasce a Napoli nel 1830, frequenta l'Accademia di Belle Arti seguendo l'insegnamento di Gabriele Smargiassi; si dedica alla rappresentazione di eventi storici e in particolare al paesaggio, avvicinandosi..
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