Chi furono i primi abitatori di quest'isola nata nella culla del fuoco e del mare? Forse, gli stessi indigeni della Campania, gli Opici od Osci, dei quali ben poco dicono i dotti, perché poco si sa con certezza delle origini e delle antichissime migrazioni dei popoli, ancora coperte da fitto velo diradato appena dagli studi della glottologia comparata. Si può credere che avessero natura fiera, selvatica, tenendo del monte e del macigno da dove erano discesi, e vivessero da predoni sul mare e per quelle belle contrade che furono sempre terre di conquista
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Rassegna nazionale nel 1910 è stato scritto da Carlo Fiorilli
Anche qui sul primo limitare della storia incontriamo il mito. Omero dice che Nausitoo primo re dei Feaci era parente di Eurimedonte, il quale regnò su i superbi Giganti; e questi, secondo Strabone furono i più antichi signori dei campi flegrei.
La favola e le leggende continuano e s'intrecciano sotto i nomi degli Ausonii, degli Enotrii, dei Cimmerii e di altri popoli che sembrano inventati dalla fantasia dei poeti, ma che, invece, realmente composero le maglie di quella immensa rete umana che si andò dispiegando pel mondo. Liparo, figlio di Ausone, muove dalla regione flegrea e va alle isole che da lui prendono nome, donde poi Eolo lo riconduce a Sorrento.
Gli Enotrii dalle fertili terre della Campania si spargono pel mezzogiorno d'Italia; e i Cimmerii che, al dire di Omero, vivono in eterna notte, scendono giù nelle terre del sole e del foco, e ivi, presso l'antro della Sibilla cumana, Dedalo scava per essi sotterranee dimore. Tra leggenda e storia vi è stretta parentela; e perciò dal Waiblinger la leggenda fu ben definita «gioconda primavera della storia». I Feaci «dalle navi veloci come l'ali, rapide come il pensiero» sono della famiglia dei Fenici, e le tradizioni raccolte da antichi scrittori concordano nel dire che i Fenici, veri lupi di mare, stabilirono scali marittimi e fattorie commerciali sulle coste del Tirreno e, fra gli altri luoghi, a Cuma; poi, essendo ivi molestati dagli Enotri, passarono nelle vicine isole di quel golfo che da Cuma ebbe nome.
Ma dov'era la terra dei Feaci, la fertile e deliziosa Scheria di Omero? Una tradizione ricordata da Tucidide la poneva a Corcira, la moderna Corfù; e i Corciresi, per dar credito alla tradizione, elevarono un santuario ad Alcinoo, dettero il nome di questo eroe ad un porto e coniarono monete col busto di Nausicaa. I critici Alessandrini, nelle loro ricerche sulla geografia omerica e in particolare su i viaggi di Ulisse, furono i primi a rilevare le incoerenze di quella tradizione. Il Braun, in un suo lavoro sulla Scheria, si studiò di mettere assieme argomenti per provare che la terra dei Feaci fosse là ov'è Taranto.
Ma la sua opinione non ebbe seguaci, ed egli non riuscì a sciogliere il nodo. Lo Champault, in un volume pubblicato nel 1906, dà a Ischia il vanto di essere la terra ove giunse naufrago Ulisse e vi fu raccolto dalla bella Nausicaa e poi ospitato nella reggia di Alcinoo, il quale lo fornì di navi che lo ricondussero a Itaca.
E sebbene lo Champault dica tante cose interessanti e faccia tanti eruditi confronti, a me sembra ch'egli si affatichi eccessivamente e inutilmente a cercare e a trovare nei luoghi d'Ischia assai più di quello che vi si possa vedere o scoprire. Ma dalla impossibilità di determinare con precisione geografica il sito della Scheria non segue che tutto sia invenzione poetica senza un contenuto reale di luoghi e d'esseri umani. L'Odissea non è un poema di sola immaginazione; né Ulisse viaggia per terre incognite.
Son quelle le coste del Tirreno risonanti al soave canto delle ninfe dalle crespe chiome; ivi le amene spiagge di Baia, ove il poeta finge che Ulisse scenda all'Averno per consultare l'ombra del tebano Tiresia ed evocare sua madre che gli parli della fedele Penelope, del tranquillo Telemaco, del vecchio Laerte; e tra Sorrento e Capri, i perigliosi scogli delle Sirene allettatrici «nelle cui acque non giunse mai nocchiero senza gustarne la dolcezza».
A quelle spiagge navigarono e si fermarono Fenici e, prima di essi, altre genti; quelle isole, quei lidi furon punto di approdo e colonie di Elleni, la cui uscita dall'Ellade precedette e motivò la creazione dell'epos omerico. Omero non faceva lavoro da geografo; era cantore e musico di un mondo reale, veduto attraverso l'alta fantasia creatrice di bellezza. Dopo i Fenici, dai cui viaggi gli Elleni appresero notizie, tradizioni e leggende, vennero Calcidesi-Euboici ed Eretri, i quali si fermarono prima a Ischia, poi passarono nelle vicine contrade e, prima che altrove, a Cuma. Con questa emigrazione ellenica verso l'occidente, circa l'XI secolo a. C., la quale rappresenta il primo scontro sul mare tra la stirpe ariana e la razza semitica, si entra nelle fasi documentate da antichi scrittori.
Livio dice così: «I cumani traggono origine da calcide Euboica. Con le navi su cui eran venuti di casa, molto poterono sulle coste del mare che abitano. Dapprima andarono nelle isole Enaria e Pitecusa; poi osarono trasferirsi sul continente». Scilace e Strabone ricordano che calcidesi e Eretrii vennero a colonizzare Pitecusa e vi rimasero sino a che ne furon discacciati da una violenta eruzione, la quale secondo geografo dice accaduta nel VI secolo a. C.
Al tempo del primo Ierone una colonia di Siracusani occupò Ischia (470 a. C.); e, tra gli altri, il Fuchs credè di poter determinare ch'essa prese terra a Lacco, luogo tra i più pittoreschi e ameni dell'isola, con naturale e larga baia; quindi salì al Monte di Vico, dov'essi costruirono quella cinta di fortificazione ricordata dall'epigrafe che fino a pochi anni si vedeva sul pendio orientale del monte. I Siracusani s'impossessarono dell'isola a danno dei Cumani Calcidesi (in aiuto dei quali erano accorsi) dopo la battaglia nelle acque di Cuma contro le flotte riunite dei Fenici e degli Etruschi o Tirreni (474 a. C.).
La vittoria di Ierone, che sebbene malato volle comandare la fazione navale, è ricordata da Strabone e da altri; e Pindaro nella prima ode Pitia così ne canta, invocando Giove: «Fa, o figliuolo di Saturno, che i Fenici e i bellicosi Tirreni si quetino, vedendo la strage funesta alle loro navi, innanzi a Cuma».
Nuovi coloni greci, già naturalizzati nella Campania, andaron poi ad occupare Ischia, probabilmente tra il 427 e il 412 a. C., quando i Siracusani, in guerra con gli Ateniesi gelosi dell'egemonia marittima esercitata da Siracusa, furono obbligati a raccogliere le loro forze e a lasciare perciò con minore resistenza il possesso dell'isola lontana.
La quale rimase in potere di Napoli greco-campana quasi certamente sino al tempo della guerra sociale, allorché Silla gliela tolse per vendicarsi dei napoletani che parteggiavano in favore di Mario. E questi a Ischia si rifugiò, lasciando la deliziosa sua villa di Miseno, per scampare alla morte di cui era minacciato dai seguaci di Silla. Nell'isola già trovavasi il figliastro Granio con alcuni amici, come narra Plutarco.
Ma neppur là sentendosi sicuro, poco dopo pertì per la Libia. In quel tempo Lucullo, intimo e potente amico di Silla, edificò l'immensa sua villa sulle rovine della vecchia Napoli: e, come nota il Pais, cominciò allora il periodo delle lussureggianti dimore campestri lungo le spiagge del golfo, dalla villa di Lucullo sino a Posillipo e a Baia. Napoli riebbe Ischia da Augusto, il quale desiderò di prendere in cambio Capri, dove il suo successore Tiberio, come è noto, ritiratosi sul tramonto della vita, vi compì infamie svelatamente narrate da Svetonio.
Del resto, il costume licenzioso fioriva da per tutto in quei luoghi sulle rive del mare, ove i ricchi accorrevano in cerca di piaceri più che a curare infermità di corpo, e dove Petronio Arbitro pose le scene non tutte vereconde del suo Satyricon. Primeggiava per incanto di sito e voluttuose delizie l'amena Baia, che Seneca, scrivendo a Lucilio, chiama «albergo di vizi» e Orazio dice «non vi ha nel mondo più risplendente seno». «Se in mille versi lodassi l'aureo lido di Baia, scrive Marziale, non lo loderei abbastanza». E Giovenale quasi invidia il suo amico Umbricio che, lasciando Roma, va alla placida Cuma, che è porta di Baia, in un eremo bello; e aggiunge, ego vel Prochytam praepono Suburae.
Più degli altri poeti Stazio, nelle sue Selve, s'intrattiene a descrivere minutamente tutti quei luoghi della Campania, sia che ricordi la villa sorrentina del suo amico Pollio Felice, sia che accenni ad Enaria e alla salutare efficacia delle svariate sue acque calde, celebrate anche da Plinio e da Strabone.
Le antichità venute fuori dal suolo d'Ischia sono men copiose di quello che si potrebbe desiderare. Vi si raccolsero iscrizioni scolpite in are votive ad Apollo e alle Ninfe delle acque termali (Nitrodes), con bassorilievi rappresentanti il nume in mezzo a ninfe, e ninfe tra i Dioscuri o tra Amori; in qualcuno si vede una ninfa che bagna i suoi lunghi capelli nella conca offertale da altra ninfa; e altri marmi iscritti con figurazioni diverse, la maggior parte dei quali trovansi nel museo nazionale di Napoli.
Si scoprirono pure titoli sepolcrali, e avanzi di suppellettile funebre, specialmente nella necropoli della baia di San Montano sotto il Monte di Vico, e le tombe greche del sepolcreto somigliavano perfettamente a quelle scoperte in altre antiche città della Campania già abitate da coloni calcidesi. Quasi sulla spiaggia di Lacco si trovarono resti di un tempio dedicato a Ercole, e un'erma marmorea del nume barbuto, nudo e con la clava, la quale erma trasportata nella chiesa di Lacco, che sorse sulle rovine dell'antico tempio, vi è adoperata per battistero.
Anche a Lacco, in un terreno di proprietà comunale, si rinvenne nel 1891 un vaso di terra cotta con 129 monete d'oro, di epoca bizantina dal 610 al 669, esaminate e descritte dal de Petra.
Ma notevole sopra tutte le scoperta, che alcuni dotti inglesi fecero verso la fine del sec. XVIII, della iscrizione greca incisa in un grande masso di basalto nero sul Monte di Vico, posta in memoria dei prefetti Pacio e Majo e dei militi che su quel Monte innalzarono una cinta fortificata.
Filostrato, parlando di Ischia, delle sue sorgenti d'acque calde, dei terremoti e delle eruzioni che la sconvolsero, attesta che sulla vetta dell'Epomeo si ergeva un tempio sacro a Nettuno, col simulacro del nume tra la prora e l'aratro; i quali emblemi, meglio che la figura del fortilizio, converrebbero, forse, come stemma d'Ischia. La quale, nel medioevo, cangiò in S. Nicola il primo padrone, avendo innalzato sulle rovine del tempio di Nettuno un eremo e una chiesa a quel santo, che diede anche il suo nome al monte.
Più copiosi sarebbero gli avanzi di antichi monumenti se l'isola non fosse stata sconvolta da frequenti eruzioni vulcaniche e terremoti, nell'antichità incomparabilmente più disastrosi di quelli che seguirono nell'età moderna.
Oltre i cataclismi avvenuti al tempo dei calcidesi e dei Siracusani, lo storico Timeo, citato da Strabone , ricorda l'eruzione accaduta poco innanzi ch'egli nascesse, nella quale l'Epomeo, dopo un terremoto, gettò fuoco, e il terreno incenerito tra il monte e il mare fu spinto in alto e ricadde turbinando come ciclone, e il mare prima si ritirò per circa tre stadii e poi tornò furioso sull'isola e la inondò.
E Plinio accenna all'altra eruzione, per la quale fu inghiottita una terra dell'isola, un monte si pareggiò alla pianura e venne fuori uno stagno; probabilmente quello che in appresso fu chiamato Lago del Bagno e che nel 1853 divenne Porto d'Ischia.
Il Günther, in seguito a studi accuratissimi, poté venire a queste conclusioni: che il suolo delle isole e delle spiagge lungo il mare napoletano subì, ove più ove meno, notevole depressione dopo il periodo di massima elevazione raggiunta al tempo della colonizzazione ellenica; che l'abbassamento più notevole avvenne negli ultimi anni dell'Impero e ne' primi secoli del medioevo; e che ad un parziale sollevamento, notato ne' primi anni del sec. XVI, seguì un periodo di nuova, per quanto lenta, depressione.
E lo Spallanzani osservò che l'isola aveva perduto della primitiva estensione, specialmente nella linea verso sud formata in gran parte di tufi, che è sostanza vulcanica men resistente alla corrosione delle onde marine le quali incessantemente la percuotono; e la diminuzione sarà sempre maggiore.
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