Rotonda e solare, panciuta ed invitante ecco la bella chiesa di Santa Maria delle Grazie in san Pietro nel cuore storico di Ischia. La sua colorata cupola maiolicata è un faro già in lontananza, che parla il linguaggio barocco napoletano, ed il suo ampio sagrato di pietra lavica è un luogo di sosta estremamente piacevole, soprattutto dopo aver percorso la salita che porta alla chiesa. In estate è uso tra turisti e ischitani sedersi qui e ammirare il passeggio dall’alto
articolo tratto dal libro di Achille della Ragione “Le chiese di Ischia”
La costruzione della chiesa fu voluta fortemente da don Antonio Moraldi, parroco di San Vito Martire e dello Spirito Santo, il quale abitava in zona e non poteva dedicarsi ai fedeli suoi più vicini, che erano costretti, per assistere alle funzioni, a raggiungere la chiesa dei Frati minori. Ottenne dall’Università il terreno sul quale edificare il sacro edificio e dopo, per sopperire alla scarsezza di fondi, anche il patronato, ereditato oggi dal comune di Ischia.
La data di fondazione del tempio è indicata in una lapide conservata al di sopra della porta d’ingresso:1781. Il nome, Santa Maria delle Grazie e delle Anime purganti ricordava un’antica cappella, inclusa ormai nella Reggia ed inoltre rispettava una consuetudine, che voleva fosse dato tale nome a tutte le chiese che fungessero da luogo di sepoltura ed infatti tutto il piano sottostante al livello stradale era adibito a cimitero comunale.
Durante i moti del 1799 la chiesa fu al centro di un episodio raccapricciante, ricordato ai posteri dal nome della piazza contigua: un gentiluomo del posto, tal Pasquale Battistessa venne impiccato sulla spiaggia della Mandra e, creduto morto, fu portato per essere seppellito nel cimitero della chiesa; durante la notte il morto, che era soltanto svenuto, si riprese..., dando nuovo lavoro ai carnefici, che dovettero ucciderlo per la seconda volta ai piedi dell’altare maggiore.
La denominazione di San Pietro deriva dalla presenza, nella cappella della Madonna delle Grazie, di una piccola statua dell’apostolo pescatore, sempre molto venerato dai suoi colleghi, abitanti della zona, i quali desideravano portare in processione la sacra immagine ogni anno il 28 giugno, per cui, con il passar del tempo, il secondo nome ha preso il sopravvento sul primo. L’edificio, sotto il profilo architettonico, si distingue dalle soluzioni più correnti e provinciali adottate nelle altre chiese, anche importanti, dell’isola.
Esso è stato oggetto di una approfondita lettura stilistica da parte del Venditti, che ha dedicato all’argomento un esaustivo articolo nella prestigiosa rivista Napoli Nobilissima. Egli ha sottolineato l’ariosa spazialità del tempio, intravedendovi, insieme alle più moderne tendenze barocche, lo straordinario equilibrio tra le parti, la misura interna nitida, argentea, fondata su un linguaggio classicistico di sapore vanvitelliano. E di un intervento attivo del grande architetto alla realizzazione di San Pietro si è a lungo ipotizzato, tenendo conto del suo soggiorno nel 1762 sull’isola, per sottoporsi alle cure termali, sotto la guida del protomedico di corte Francesco Buonocore.
E certamente una funzione di mediazione nei riguardi degli ambienti napoletani culturalmente più avvertiti ci sarà stata, soprattutto nella scelta della pianta ellittica, che, a differenza della pianta a croce, permetteva una serie di variazioni in grado di soddisfare"il gusto per il capriccio, per la bizzarria e per la fantasia".
La pianta ovata aveva fatto la sua comparsa a Napoli grazie a fra’ Nuvolo ed in seguito era stata adottata dal Lazzari, dal Nauclerio, dal Vaccaro, fino allo stesso Vanvitelli, che, nel 1760, la adotta nella chiesa dei Padri della Missione ai Vergini, un sicuro punto di riferimento per la chiesa di San Pietro di Ischia, nella quale il tema spaziale dell’ellisse rappresenta una vera novità per l’architettura isolana.
La chiesa si trova in posizione elevata rispetto al piano stradale ed è leggermente arretrata su di un piccolo spiazzo, con sul davanti una serie di gradini che conduce ad un rustico sagrato, pavimentato con pietre di lava. La sua collocazione su un importante asse di scorrimento tra due quartieri, densamente popolati, è stato determinante in passato per l’orientamento degli edifici sorti nel corso del tempo.
La facciata, tipicamente barocca, ha forma convessa, che tende a seguire la curva ellittica della pianta interna; in essa si svolgono due ordini di paraste, raccordate da volute inserite entro sinuosi pinnacoli terminali e conclusi da un timpano.
La geometria interna è pervasa da un sorprendente carattere unitario, chiara espressione di una notevole personalità creatrice, che non ha trascurato alcuna, anche modesta, parte dello spazio; è un vero peccato che la scarsezza di fonti storiche non ci permetta di conoscere il nome dell’architetto, ma, un’attenta disamina di alcuni dettagli, ci permette di stabilire con precisione la sua corrente culturale di appartenenza.
Egli si muove con sicurezza nell’ambito della scuola vanvitelliana, ben partecipe di quella nuova corrente di gusto, che, a partire dal 1751, aveva sostanzialmente romanizzato l’ambiente edilizio della gloriosa capitale borbonica, dando luogo a quegli straordinari esempi di "grandeur", quali la Reggia di Caserta e l’Albergo dei Poveri.
L’interno, pervaso da una tarda ripresa di soluzioni borrominiane, è caratterizzato da una profonda zona absidale e da quattro cappelle laterali, che si innestano armonicamente nel perimetro ellittico. Di grande eleganza la decorazione a stucco realizzata intorno al 1770 dall’artigiano napoletano Francesco Starace.
Al centro, in corrispondenza della navata, sopra un ampio tamburo, poggia una poderosa cupola ellittica ricoperta di embrici maiolicati gialli e verdi, usciti dalla famosa bottega napoletana di riggiolari dei fratelli Chiaiese, rutilanti al caldo sole isolano e dallo straordinario effetto cromatico, ben visibili dalla vicina spiaggia e dalla non lontana pineta dell’Arso.
Entrando, ai lati dell’ingresso, siamo accolti da una coppia di acquasantiere con vasca di splendente bardiglio a forma di conchiglia, realizzata nel 1780 e dalla lapide, posta sulla controfacciata, che ci rammenta l’anno (1781) di consacrazione della chiesa. Proseguendo, nella prima cappella a sinistra, in una nicchia vicino all’altare, trova posto una scultura lignea di San Pietro, dalla preziosa aureola d’argento, punzonata nel 1830 dall’argentiere partenopeo Gennaro Romanelli.
Quindi un San Giovanni Giuseppe della Croce, settecentesco, di modesta fattura, che ci mostra il venerato santo ischitano a mezzobusto, con indosso il saio francescano e con la destra ampiamente benedicente. Lungo i pilastri della navata si ammirano quattro tele del pittore ischitano Carlo Borrelli Ponticelli, che realizza anche la tela posta sull’altar maggiore, firmata e datata 1779, rappresentante la Madonna delle Grazie con le Anime purganti.
L’artista, poco noto, è anche l’autore di tre quadri nella chiesa di San Leonardo a Panza. In sacrestia sono conservati alcuni dipinti a carattere devozionale: un olio su vetro ottocentesco, rappresentante San Luigi Gonzaga, una teletta con la Madonna ed il Bambino di ignoto autore ispirato ai modi del Solimena, a cui, in epoca successiva sono state applicate stelle e corone ed infine una Immacolata, troneggiante su una schiera di putti, firmata e datata 1862, opera di Antonio Scotti Lachianca, un indigeno, che dopo circa trenta anni eseguirà le tele nella cappella della Pietà a Lacco Ameno. Per finire, nella prima cappella a destra, un San Camillo de Lellis, opera di un ignoto pittore locale settecentesco, che ci ricorda la leggenda che vorrebbe il santo frequentatore della località Villa de’ bagni, fare ricorso alle benefiche virtù terapeutiche delle acque locali, per una piaga che da tempo lo tormentava, scomparsa per un miracolo terreno, dopo alcune efficaci quanto gratuite abluzioni.
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