Poco distante dalla Cattedrale, sull'altro lato della strada, sorge la chiesa Collegiata dello Spirito Santo, costruita tra il 1636 ed il 1676. Originariamente, sul posto ove oggi sorge il sacro edificio, si trovava una cappella dedicata a Santa Sofia di proprietà della famiglia Cossa. Essa, intorno al 1570, fu adattata a luogo di culto dei marinai del borgo di Celsa, mentre il titolo parrocchiale dalla chiesa di San Vito a Campagnano, vi fu trasferito, per decisione del vescovo Fabio Polverino, nel 1580. Inoltre tutti i fedeli si tassarono, dedicando una parte dei guadagni prodotti dalle loro attività ad un programma di assistenza materiale e spirituale
articolo tratto da Achille della Ragione “Ischia Sacra
Poco distante dalla Cattedrale, sull’altro lato della strada, sorge la chiesa Collegiata dello Spirito Santo, costruita tra il 1636 ed il 1676. Originariamente, sul posto ove oggi sorge il sacro edificio, si trovava una cappella dedicata a Santa Sofia di proprietà della famiglia Cossa. Essa, intorno al 1570, fu adattata a luogo di culto dei marinai del borgo di Celsa, mentre il titolo parrocchiale dalla chiesa di San Vito a Campagnano, vi fu trasferito, per decisione del vescovo Fabio Polverino, nel 1580. Inoltre tutti i fedeli si tassarono, dedicando una parte dei guadagni prodotti dalle loro attività ad un programma di assistenza materiale e spirituale
Tutti i fedeli si tassarono, dedicando una parte dei guadagni prodotti dalle loro attività ad un programma di assistenza materiale e spirituale. A tale scopo, nel 1613, di fianco alla congrega, fu edificato un piccolo ospedale, che funzionò per alcuni decenni. Nel 1672 i lavori di ampliamento terminarono e la chiesa fu aperta al culto di tutti gli abitanti del quartiere.
Nel 1851 il pontefice Pio IX la elevò al titolo di Collegiata con un capitolo di canonici.
La Collegiata dello Spirito Santo è sede della venerazione di San Giovanni Giuseppe della Croce, un francescano alcantarino (Ischia 1654- Napoli 1734), le cui spoglie sono da poco ritornate nell’isola natia dopo una lunga permanenza a Napoli, dove morì, con grande giubilo della popolazione legata ad un culto molto sentito al Santo, una figura di spicco nella storia religiosa napoletana del Settecento.
La chiesa ha pianta basilicale a croce latina, con navata unica e tre cappelle per lato. Una breve scalinata conduce all’ingresso. La facciata, dalle linee molto semplici, è decorata soltanto in alto da una finestra trilobata sopra il portale. Sul lato destro vi è la torre campanaria, di forma piramidale, sormontata da una cupoletta a pera, rivestita da mattonelle smaltate gialle e verdi. All’incrocio della navata con il transetto è presente una bassa cupola, che all’estradosso porta un tetto spiovente poggiato sui muri perimetrali. L’interno è particolarmente ricco di opere d’arte, tra cui un affresco, conservato in sacrestia, raffigurante il Castello, del XVI secolo ed un baldacchino d’argento del XVIII secolo.
Entrando, a sinistra, ci accoglie un originale fonte battesimale ottocentesco, mentre sulla controfacciata vi è una tela del 1709 di un ignoto pittore campano, raffigurante San Francesco Saverio che battezza un negretto. Nella prima cappella a sinistra una Madonna con Bambino e Santi, esito del pennello di un artista di ambito provinciale ispirato ai modi di Francesco Solimena. Sull’altare della terza cappella a sinistra una Madonna del Rosario contornata da quindici telette raffiguranti i Misteri.
Il quadro, eseguito nel 1786 utilizzando una vecchia tela, ha dislivelli qualitativi tra il volto della Vergine, molto bello e dolce, sicuramente autografo e la parte inferiore, alla quale partecipa la bottega. Nei due transetti vi è una coppia di altari in marmi policromi molto belli, eseguiti dal marmoraro Antonio Di Lucca nella seconda metà del Settecento. Il paliotto dell’altare di destra fu modificato nel 1797 per inserirvi il contenitore delle reliquie di San Pio.
Sull’altare del transetto sinistro fa bella mostra una Madonna delle Grazie con le anime purganti di Paolo De Matteis, firmata e datata 1710. La Vergine, seduta in alto tra le nubi col Bambino, fa grondare dal seno copiose gocce di latte ad un gruppo di anime purganti, che, caldamente, la implorano. La tela è impregnata di grazia raffinata e di misurata eleganza compositiva, attraverso l’uso di stesure cromatiche dalle tonalità preziosamente rischiarate, che precorre il gusto rocaille.
Il De Matteis realizza nel dipinto “una perfetta sintesi tra colore e disegno, contenuto e forma, in ossequio a quella vena di ritrovato classicismo" (Rolando Persico), che contraddistingue le sue opere più riuscite. L’altare maggiore in marmi policromi è opera di collaborazione tra un eccellente marmoraro napoletano ed un ignoto scultore, autore dei cherubini che impreziosiscono i due capialtari ed il ciborio.
La balaustra riprende motivi di grande successo, introdotti in area napoletana da Niccolò Tagliacozzi Canale nella zona presbiteriale della Certosa di San Martino. Nella parete di fondo dell’abside è collocata una Pentecoste, realizzata nel 1768 dal Di Spigna, una composizione animata da un moto circolare di grande dinamismo, che ci fa apparire il pittore lacchese aggiornato sui modi della pittura napoletana degli anni Sessanta, di ispirazione accademica. Sulle pareti dell’abside è presente una serie di quattro rilievi in stucco modellato, rappresentanti, partendo da sinistra: San Giovanni Evangelista, Santo evangelista(?), Sant’Andrea e San Giacomo. Essi furono realizzati nel 1768 da Cesare Starace, quando l’artista eseguì anche la cornice di stucco per il quadro della Pentecoste. In una nicchia posta nell’altare del transetto destro vi è una scultura a manichino rappresentante San Pio, adagiato su una bara in legno intagliato e dipinto, decorata da profilature dorate.
Sull’altare vi è un Crocifisso, fine Settecento, in legno scolpito e dipinto, caratterizzato da un accentuato pietismo, che riprende schemi iconografici importati dalla Spagna il secolo precedente. Sull’altare del transetto destro vi è un Calvario, eseguito da Giuseppe Bonito, probabilmente nel 1768, sagomato attorno al Crocefisso illustrato precedentemente. La tela è una replica autografa di quella eseguita nel 1757 per la chiesa napoletana di San Giovanni e Santa Teresa all’Arco Mirelli. L’opera presenta chiari segni di classicismo, che in ambito napoletano si manifestavano in quegli anni sotto l’influsso della pittura romana.
Nella terza cappella del lato destro trova posto una Annunciazione, datata 1776, da attribuire al poco noto Vincenzo Diano, del quale non si conoscono legami di parentela con il più noto Giacinto, attivo nella vicina Cattedrale. La paternità della tela si basa su convincenti raffronti con gli affreschi dipinti dall’artista nel monastero di Santa Caterina da Siena nel 1777.
Nella nicchia sull’altare della seconda cappella a destra vi è una scultura rappresentante San Pietro, opera di un artista napoletano ispirato ai modi di Giuseppe Picano, da cui riprende pedissequamente lo schema della capigliatura e della barba condotta per volute.
Nella sacrestia, in un elegante mobile per arredi, di artigianato campano della prima metà del secolo XIX, sono conservati vari oggetti sacri d’argento, tra cui segnaliamo uno splendido calice punzonato dall’argentiere Gennaro Russo, attivo con due statue nella cappella del Tesoro del Duomo di Napoli.
In sacrestia vi è pure una Traditio clavium, un raro tema iconografico eseguito dalla bottega di Fabrizio Santafede. Il dipinto è stato studiato dall’Alparone, il quale, nell’assegnarlo al pennello del maestro, operava dei raffronti con il Cristo e la Samaritana della quadreria del Pio Monte della Misericordia e con il Cristo ed i figli di Zebedeo della pinacoteca dei Gerolamini. La tela in esame, pur essendo di notevole qualità, tradisce però una certa durezza di esecuzione, che contrasta con la consueta dolcezza dei dipinti del Santafede.
La Scricchia Santoro, in una sua comunicazione orale, ha avvicinato l’opera al catalogo di Giovan Bernardo Azzolino, non avendo riscontrato quei caratteri di arrotondamento e di addolcimento tipici nelle fisionomie santafediane. Una particolare attenzione è stata dedicata dalla Rolando Persico, nella sua monografia sui dipinti delle chiese ischitane e dal Borrelli, nel redigere la scheda per la Soprintendenza, alla figura in basso a destra del committente, trovando una somiglianza con il donatore che compare nel dipinto di Carlo Sellitto conservato nella chiesa di Aliano in provincia di Matera. Raffronto che, a nostro parere, è del tutto arbitrario, essendo il ritratto del committente del Sellitto un vero capolavoro impregnato del più schietto naturalismo, che cominciamo a riscontrare in area napoletana dopo la venuta del Caravaggio, non prima del secondo decennio del Seicento, mentre la Traditio clavium ischitana va collocata cronologicamente almeno venti anni prima.
Sistemato attualmente sulla parete destra della controfacciata della chiesa, vi è un olio su tavola con la Madonna, Bambino e Santi, che venne ritrovato nel 1969 dietro il quadro raffigurante la Pentecoste, sito sull’altare maggiore. Attribuito dall’Alparone in un primo momento a Marco Pino, fu, prudentemente, dallo stesso studioso, assegnato, dopo un più attento esame, ad un collaboratore della bottega. Si può ipotizzare il nome di Michele Manchelli, genero del maestro, che, come risulta dai documenti, riprende i moduli del suocero in molte opere, senza però raggiungerne i livelli qualitativi. Sempre sulla controfacciata destra si trova una Madonna della Salvazione, opera di un ignoto attivo nella prima metà del secolo XVII. La Vergine è seduta su delle nubi ed ha sulle gambe il Bambinello, il quale regge uno scettro con cui indica un gruppo di barche di pescatori dirette verso l’isola di Ponza. Un classico ex voto donato da scampati ad una tempesta. E per finire, nella prima cappella a destra, si trova una tela di un certo interesse, rappresentante la Sacra famiglia con Sant’Anna, San Gioacchino e San Giovannino, da confrontare con la tela omonima, conservata nella sacrestia della chiesa dei santi Filippo e Giacomo a Napoli ed assegnata a Fabrizio Santafede. La tela della chiesa ischitana ricalca pedissequamente, con qualità molto più bassa, il quadro napoletano di cui con precisione ripete "dettagli, atteggiamenti, espressività, intensità di sguardi, tutti elementi che concorrono a ricreare quella sorta di atmosfera familiare ed intima che si riscontra in numerose tele santafediane".
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