Henrik Ibsen e l’isola di Ischia. Un sogno che lascia il segno
Cosa c’è di più distante dalla ghiaccia immobilità di un paese dell’estremo nord? La dionisiaca esplosione del sole e della natura del Mediterraneo. Non a caso il sud Italia diventa per gli intellettuali europei un sogno a lungo accarezzato ed a volte vissuto per davvero. E nel viverlo quel sud può accadere che lasci una traccia anche nell’opera dello scrittore più nichilista, la traccia che Henrik Ibsen porta con sé dall’isola di Ischia è Peer Gynt
Disperdere nella luce zenitale del sud l’amarezza di una delusione politica è sicuramente una buona soluzione. Ibsen lascia la Norvegia per ben 27 anni.
Va in Germania, poi viene in Italia. Vive del tempo a Roma, poi decide si spostarsi più a sud.
E’ la primavera del 1867, Ibsen sbarca ad Ischia.
L’albergo del suo soggiorno nell’isola di Ischia si trova a Casamicciola, è l’albergo Europa - poi questo storico albergo dell’isola di Ischia cambierà nome diventando Villa Ibsen in ricordo dell’ospite illustre.
Il mare dell’isola di Ischia lo attrae. Ostinatamente e gelosamente un solitario, Ibsen spesso amava aggirarsi sulla spiaggia, fra le barche, le vele e le reti. Invano i pescatori cercavano di parlargli e di scoprirne i pensieri, sicché lo chiamavano il «fantasma».
E sembra che proprio a Casamicciola sia nato l’errabondo eroe Peer Gynt.
La sua disperata corsa nel mondo ha forse inizio proprio nel verde dì questo paesaggio nel quale egli ritornerà esausto, per morire fra le braccia anelanti di Solvejg.
«Forse, - scrive Roberto Minervini - la capanna di Solvejg, dove approda dal naufragio del suo viaggio e delle sue chimere, il vecchio Peer Gynt, è laggiù, proprio laggiù, fra i castagneti di Casamicciola: una Casamicciola diventata Norvegia.
Il dramma astratto della rivolta, il senso polemico e satirico, in fondo, del dissoluto protagonista, sia pure nel rigore di quella coerenza d’impostazione e di posizione storica assunta da Ibsen, trova, sì, in quelle deliranti forme di vana evasione, una nuova conferma, ma trova anche un riscatto.
È vero, sì, che nell’immaginoso lavoro non manca, come osserva Croce, il consueto impeto verso lo straordinario, ma è anche più vero che lo straordinario decade e ripiega nella infinita dolcezza di Solvejg.
È creatura di poesia, Solvejg.
Non appartenendo al tipo di donne ibseniane passionali e sensuali, ma a quello purificato dallo splendore dei pensieri e dalla nobiltà della dedizione, s’intende perché, e per qual privilegio femminile, ella abbia potuto attendere, per anni ed anni, il ritorno dell’amante che non sentiva di aver perduto. Solvejg è creatura di suprema poesia.
Mente ancora, Peer Gynt, quando si china sul grembo di lei e la esorta: - Grida ben forte quanto io abbia peccato! Mente, ancora, il bugiardo inguaribile? Non importa. La verità, anche per lui, è nella risposta dell’altra: - In nulla hai peccato, in nulla; di tutta la mia vita hai fatto un magnifico canto!».
Su questa terra isolana Ibsen «ha aperto una parentesi di clemenza nel suo pessimismo totale, ha dimenticato gli elementi ragionali del suo paradigma biologico, si è intenerito in sostanza al calore non soltanto del sole, ma degli affetti mediterranei. Ibsen questa volta ha finalmente perdonato un uomo e benedetto una donna».
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