Il sartù di riso è uno di quei piatti “impegnativi” della cucina ischitana, ed infatti si prepara nelle occasioni importanti o nei giorni di festa.Pur essendo un piatto molto diffuso in tutto il sud Italia, la ricetta tradizionale parte da Napoli. C'è da dire che si tratta di una eccezione alla tradizionale base dei primi piatti campani, ovvero la pasta. La cucina meridionale infatti non utilizza molto il riso, ma quando lo fa, come nel caso degli arancini e del sartù, non risparmia sugli ingredienti! Il riso viene trattato in maniera del tuto “barocca”, ricco di ogni prelibatezza: polpettine fritte, sugo, piselli e melanzane. Insomma il sartù è un'autentico trionfo di sapori da gustare accomodandosi alla grande tavola ischitana
Bibliografia: www.sartu.it
Ma come mai troviamo questa ricetta a base di riso nella cucina campana? Ce lo spiega questa bella pagina di storia culinaria tratta dal sito www.sartu.it
“Se gli artefici dell’arrivo del riso a Napoli furono gli Spagnoli, i protagonisti del suo ritorno furono invece i Francesi. Per il tramite dei loro cuochi.Nel 700, erano loro, i cuochi francesi, a regnare su Napoli. I nobili, che vivevano nei palazzi del Centro Storico e di Monte di Dio, nella adiacenze di Palazzo Reale, in quel periodo per apparire chic, parlavano francese, e nella stessa lingua mangiavano. I loro cuochi (sia quelli autenticamente francesi, sia quelli napoletani, che si erano comunque impratichiti nella cucina d’Oltralpe) erano chiamati, in un francese napoletanizzato, “Monsù” (da “Monsieur”.)
Questi poveri cuochi dovevano scontrarsi quotidianamente con l’idiosincrasia dei loro padroni …nei confronti del riso, che invece in Francia andava alla grande. Un’avversione (ma forse si potrebbe definire meglio un non-amore: un’indifferenza) che andava avanti da secoli.
Cosa pensarono allora di fare, i Monsù? Si mobilitarono per nobilitare il riso.
Per renderlo più gradevole ai palati partenopei.Per cominciare, ci misero dentro della salsa “c’a pummarola”: il pomodoro, a quei tempi, a Napoli era già una sorta di passepartout, un viatico. Questo però non poteva bastare: anche se rosso, il riso restava uno sciacquapanza.
I Monsù decisero perciò di arricchirlo con melanzane fritte, polpettine e piselli. Tutte queste prelibatezze le piazzarono sopra il riso, a guarnizione: come specchietto per le allodole.In cima a tutto: in francese, “sur-tout”. Da “sur-tout” a “sartù” non c’è che lo spazio di un sospiro, e il tempo necessario ad emetterlo. I loro padroni, i nobili napoletani,fecero da cavie a questo “nuovo” piatto.
E mostrarono di gradire il sartù quanto avevano disdegnato il riso: vale a dire, moltissimo. Un po’ per volta il sartù, pur rimanendo sulle tavole dei ricchi, passò pure su quelle dei poveri. Diventando, come molti cibi, a Napoli e altrove, una splendida metafora dell’egualitarismo. A conferma che la legge (della buona cucina) è uguale per tutti.” Venendo ad Ischia in vacanza potrete gustare un ottimo sartù di riso nelle migliori locande, ristoranti ed osterie sempre attente alla tradizione gastronomiche locali.
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