Andando per mare, antichi racconti di pescatori ischitani
Ischia ed uno dei mestieri più antichi. Il lavoro di chi vive di mare è sicuramente affascinante, come tutti i nodi che legano l’uomo alla natura. Fa venire in mente le lunghe notti stellate, le albe estive, lo sciacquio delle onde sulla prua, la bonaccia pomeridiana e tante, tante figure letterarie. Ma oltre la poesia c’è di più. C’è prima di tutto un sapere tramandato da padre in figlio, la perizia di fare nodi e di scioglierli, l’invidiabile capacità di essere delicati al momento giusto e forti, anzi fortissimi quando è tempo di issare le reti.
I pescatori di Ischia sono ancora tanti. Molti quelli della nuova generazione, giovanissimi o adulti, energici ma anche confortati dai nuovi ritrovati meccanici e tecnologici per pescare con minore difficoltà. Poi ci sono i vecchi – i grandi vecchi come verrebbe la tentazione di dire – loro sono quelli che hanno lavorato per decenni in maniera eroica senza comodità, né stregonerie moderne.
Ora non escono più in mare, il mare lo conservano negli occhi sempre pieni di luce e nelle mani disastrate. Rimangono in spiaggia o sui moli a riparare le reti, o a creare arnesi per la pesca nelle loro piccole botteghe di Ischia ponte, la Mandra, Forio. Tutti senza eccezione amano raccontare. Amano raccontare della loro giovinezza spesa sul mare, ed anche se capita che si commuovono, chiedono scusa e continuano la loro storia.
Parlano di ciancioli, tremagli, nasse, sciabiche, tutti modi diversi di andare a caccia di pesci, parlano di reti che si gettano all’imbrunire in estate oppure all’alba in inverno. Parlano di fatiche inenarrabili, di quando stremati, e con la pelle stracciata dal sale, tornavano a casa con la loro piccola paga. Anni difficili ad Ischia quelli che hanno preceduto gli anni 60’. Prima che il turismo portasse un po’ di benessere, si andava scalzi in estate ed in inverno e si mangiava poco. “ Avevo 8 anni quando ho cominciato ad “uscire” con mio padre “ spiega un pescatore di Ischia ponte.
Aniello ha quasi 80 anni ed è piccolo come un soldo di cacio, come doveva essere gracile quando ancora bambino andava le prime volte a pescare
«Ero piccolissimo – ricorda – ma era necessario che io aiutassi mio padre; la famiglia era numerosa e facevamo la fame». “Facevamo la fame” è la frase più ricorrente quando i grandi vecchi del mare cominciano a raccontare. «Non avevamo i soldi neanche per comprare un pezzo di pane da portare sulla barca come spuntino. Così quando ci veniva appetito o mangiavamo pesci crudi oppure raggiungevamo la zona della Grotta di terra a Campagnano e davamo la voce. Gridavamo con quanto fiato avevamo in corpo “calacala”; se c’era qualche contandino che ci sentiva scendeva giù fino a raggiungere la barca e ci portava un cesto con quello che aveva nell’orto: fichi, pomodori, vino, un po’ di frutta e noi nel cesto ci mettevamo un po’ di pesce. Un baratto improvvisato insomma, ma necessario. Non dimenticatevi che non c’erano i motori ed ogni distanza era coperta dalle nostre braccia, remare, bisognava remare».
E non erano distanze da poco. A volte le zone da battere erano lontane sfioravano la penisola sorrentina, Napoli, ed in certi casi anche la costa laziale. Ore ed ore navigando a forza di schiena. E cosa finiva nelle reti? Di tutto, di più come ci spiega Aniello. Ogni tipologia di pesca era mirata alla cattura di alcune specie, per esempio alici, mazzoni, polpi.
Ma poteva capitare che nella rete finisse anche qualche altra creatura marina.
«I delfini, a volte i delfini rimanevano impigliati. Noi li liberavamo, anche perchè erano amichevoli e ci aiutavano a pescare. I branchi di delfini nuotando intorno alla barca favorivano l’entrata del pesce nella rete. I pesci scappavano dai delfini e finivano dalla padella alla brace. Era sempre lo stesso gruppo, avevamo imparato a distinguerli, a qualcuno gli avevamo dato anche il nome, mi ricordo capajanca, un delfino con la testa bianca, bianca».
Però a volte gli incontri nel mare di Ischia erano più “difficili”. Soprattutto quando si aveva a che fare con gli squaletti. «I pescicani erano terribili! – ricorda Aniello – ora non ce ne sono più, ma all’epoca prima della Guerra li si incontrava in mare aperto. Quando le reti si riempivano di pesce, se qualcuno di loro si feriva e perdeva sangue, subito arrivava o’ pescecan e cominciava a mordere tutte le reti per mangiarsi i pesci. Faceva degli strappi atroci, ci rovinava tutta la pescata. Quindi avevamo imparato a mettere nella zona distante dalle reti una grossa esca, un pesce tranciato, così quelle bestie si accanivano con lui e lasciavano in pace le reti. Poi qualche volta è capitato che pure o’ piscane è finito nella rete. Lo abbiamo tirato su e lo abbiamo venduto al mercato».
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