Non è la solita pizza! Elogio di uno dei piatti più celebri della cucina napoletana

Che si chiami Margherita, in onore di una testa coronata, Marinara o Quattro stagioni la regina incontrastata della tavola napoletana è una celebrità mondiale.Ma la vera pizza si mangia solo a Napoli

articolo scritto da Vito Saturno per la Guida Pizzerie di Italia cura di Edikronos

Alla Marinara o Margherita, quando avrete davanti una bella pizza non perdete tempo: va mangiata calda, fumante.

Ad Ischia sono tantissime le pizzerie che offrono questo piatto secondo l’antica ricetta napoletana, del disco di pasta condito cotto a legna.
Il piatto napoletano per eccellenza, la pizza, ha una lunga storia che giunge fino agli antichi romani. Riportiamo un articolo scritto da Vito Saturno e pubblicato su una guida molto preziosa e puntuale: la Guida Pizzerie di Italia cura di Edikronos. L’articolo, in maniera esaustiva, colta e divertente, traccia una: “Storia, geografia, filologia, filosofia e fisiologia della Pizza”

La pizza è l’unico piatto al mondo, in grado di soddisfare tutti e cinque i sensi: la vista, con la sua forma rotonda, piena, colorata a tinte decise e vivaci; l’odorato, quando ti s’avvicina, fragrante e spande profumo di forno e di buoni ingredienti; il tatto, quando la stringi fra le dita, la dividi a spicchi, per portarla alla bocca senza usare forchetta e coltello e ti trasmette quel suo calore sensuale; il gusto, manco a dirlo, se l’olio è olio, se la mozzarella è mozzarella, il pomodoro è pomodoro, la farina è farina.

E, infine, l’udito. Direte: perché l’udito?

Ma perchè la pizza non è cibo da consumarsi in solitudine, con lo squallore del panino unto all’hamburger, in piedi fra cento altri estranei.
La pizza, benché semplice e veloce, è un pasto “di” compagnia e “da” compagnia, cibo che gustato fra amici suscita pensieri e parole di amicizia e di allegria, di calore che non è soltanto quello del forno nel quale essa prende vita.

È cibo da atmosfera.

È cibo antico e colto: la sua storia risale indietro di molti secoli; la sua presenza si ritrova in pagine di letteratura e di storia inimmaginabili.
Dobbiamo fare un gran passo a ritroso, almeno di cinquemila anni e spostarci in Egitto: il metodo di lievitazione e impasto è stato inventato laggiù, contemporaneamente all’invenzione della birra, con buona pace di quanti pensano che si tratti di una bevanda di nascita nordica. I greci, nei loro traffici con la sponda Sud del Mediterraneo, importarono nel continente europeo il sistema di panificazione e ne fecero il cardine dell’alimentazione popolare.

Ma il pane, in mano ai greci, assunse forme più varie: non solo la pagnotta, ma anche la “maza memagmene”, il disco di pasta, sottile e più o meno soffice, simile a una focaccia, su cui spalmare o poggiare cacio ed erbe aromatiche, pesce salato o miele. Nascono così torte o focacce. E poi, la fantasia e il gusto hanno fatto il resto.

La prima traccia “colta” della pizza c’è in poche parole dal poeta greco Archiloco (VII secolo a. C.): questi, soldato mercenario di mestiere, aveva, per così dire, l’hobby della poesia e infatti recita “... Nella lancia, sta la mia focaccia impastata, nella lancia il vino d’Ismaro e io bevo appoggiato alla lancia...”.

Pizza e vino, quindi, fin dalla più remota antichità.

Anche i Romani mangiavano queste specie di pizze o focacce: si chiamavano “moretum” e “mensa” secondo lo spessore e l’uso. Il moretum era molto più simile a una nostra focaccia, o a una farinata ed era arricchito con aglio, rosmarino e cipolle. La più antica e, forse, l’unica ricetta esistente e giuntaci intatta è dovuta alla penna e all’estro di Virgilio, che mise in poche decine di versi d’un gustoso (è il caso di definirlo così) poemetto, dal titolo di “Moretum”, la mattina di un contadino, che prepara la sua giornata, incominciando dal cibo.
E il suo cibo è proprio una focaccia: il grande poeta ci descrive il modo di preparazione, ce ne elenca gli ingredienti, ce ne fa sentire il profumo.

L’altra versione, la “mensa” era più sottile e più larga ed era anch’essa cibo plebeo. Sulle tavole dei benestanti, sostituiva i piatti. Spieghiamo come. Arrivava in tavola un unico piatto, dal quale ciascun commensale toglieva la sua porzione, per trasferirla nel disco di pasta cotta al forno, che fungeva da coperto.

La “mensa”, durante il pranzo, si impregnava di sughi, salse, condimenti. E, alla fine, veniva data ai servi di casa, con tutti gli avanzi che ancora vi fossero depositati sopra. Una specie di pizza capricciosa, insomma. E i servi delle case patrizie della Roma antica, senza saperlo, sono stati i primi mangiatori di pizza della storia. Che fosse cibo plebeo, lo testimonia ancora Virgilio: Didone, maledicendo Enea che se ne fugge da lei, augura che gli eroi troiani possano essere ridotti tanto a mal partito, da dover mangiare anche le “mense”.

Per tutto il Medio Evo, non essendosi ancora diffuso l’uso di un piatto per ciascun commensale, la “mensa” di romana memoria riesce a sopravvivere, con una fortuna che va affievolendosi, a mano a mano che sulle tavole dei più abbienti si vengono imponendo stoviglie come le intendiamo oggi. Ma il popolo, in varie forme e con vari nomi, fa entrare nella sua dieta abituale il disco di farina di frumento o di altre farine, che qui chiamano farinata, qui piadina, qui focaccia.

Napoli fa storia a sé.

Città greca da sempre, ha sempre mantenuto per secoli, anche durante l’impero romano e le vicende storiche successive, il suo stile greco, almeno fino a metà del XII secolo. In greco, quel pane tondo, schiacciato, condito, si chiamava anche “picea” e a Napoli divenne “pizza”.
Non c’è dubbio che, se la primogenitura dell’idea è controversa (ma Napoli, come città di origine greca ha tutte le carte in regola) almeno per il nome la primogenitura è incontestabile.

Quanto al resto, va tirato in ballo Cristoforo Colombo, scopritore dell’America e primo importatore in Europa di tanti prodotti del suolo che rivoluzionarono, a partire dal ‘500, l’intero modo di alimentarsi. Dal mais alle patate, dal cacao al tabacco, al “pomodoro”, la dieta del vecchio continente ne fu modificata tanto radicalmente e profondamente, da non somigliare più a quella di prima.

A Napoli, allora, governavano gli Spagnoli e furono gli Spagnoli, nel ‘600 a portarvi il nuovo frutto. Ma già allora, nel napoletano, si mangiava pizza e la prova sta in un testo letterario, “Lu cunto de li cunti”, in cui figura un racconto intitolato “Le due pizzelle”. Non era ancora, forse, la pizza al pomodoro, che veniva conosciuto più o meno in quel periodo: era, piuttosto, quella che oggi si chiama ancora la “marinara”, il pasto dei pescatori dopo l’attracco, consumato caldo caldo e direttamente sulla banchina.

Nel ‘700, la pizza con pomodoro ha già raggiunto il culmine della diffusione (parliamo sempre di ceti popolari) e fa parte della dieta abituale dei napoletani. Cibo veloce, economico, abbastanza completo dal punto di vista nutrizionale, coi suoi circa duecento grammi di pasta di pane, calda e condita, non incontra più ostacoli. Sulle tavole della borghesia non arriva; su quelle della nobiltà, manco a pensarci.

La pizza si cuoce in forni che danno direttamente sulle strade, si mangia in piedi, con le mani: ve lo immaginate un gentiluomo in guanti e tuba, oppure una dama col cappellino a veletta, mangiare la pizza con le mani e per la strada? Ci vuol tempo, prima che la pizza raggiunga i borghesi e salga ancora più in alto. E, comunque, prima che esca dalla zona di Napoli, dove ancora nella seconda metà dell’Ottocento era e restava il cibo del popolo minuto.

Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea: sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria a Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si ritrovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime, la folla vi accorse; poi, andò scemando. La pizza, tolta dal suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma: pianta esotica, morì in questa solennità romana.

Nel 1889, per la precisione il 10 giugno 1889, il pizzaiolo Raffaele Esposito con forno in Salita di Sant’Anna di Palazzo, a pochi passi dal Palazzo Reale, ebbe l’onore di servire proprio Sua Maestà la regina d’Italia, quella Margherita che, pur “mangiando il pollo con le dita”, con la sua gentilezza e il savoir faire stava conquistando alla causa della nuova monarchia anche gli spiriti più accesamente repubblicani, come lo stesso Giosuè Carducci.

Il giorno seguente, da Casa Reale, don Raffaele si vide recapitare un biglietto su carta intestata, nel quale il “Devotissimo Galli Camillo, Capo dei Servizi di Tavola della Real Casa”, gli comunicava la piena soddisfazione di Sua Maestà.
Come si chiama, quella pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, che era la più gustosa di tutte e tre le proposte?
Venne chiesto a don Raffaele e quegli, sveglio e tempestivo: “Margherita, in onore di sua Maestà!”. E accompagnò quelle parole con una riverenza.

Era fatta, la fortuna sua, quella della pizza col nome della regina e quella della pizza in genere. Nessun turista più, da allora, arrivando a Napoli, volle sottrarsi all’esperienza della pizza.

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