La visita alle chiese del comune di Ischia
A volte diroccate, spesso defilate, ma anche barocche e panciute le chiese del comune di Ischia dal Castello a Sant’Alessandro..
Dopo la morte, avvenuta nel 1388, di Giovanni Cossa, governatore d’Ischia e di Procida, il figlio Pietro fece edificare sulla spiaggia, a pochi passi dal Castello aragonese, una grande chiesa dedicata alla Madonna della Scala.
Di lato venne anche costruito un convento affidato ai padri Agostiniani. La famiglia Cossa era una delle più illustri dell’isola ed era tenuta in gran conto dalla corte angioina di Napoli. Il fratello di Pietro, Baldassarre, salì al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXIII, anche se, a seguito delle lotte ecclesiastiche che imperversavano all’epoca, nella storia pontificia è considerato un antipapa.
Nei secoli la chiesa è stata tre volte demolita e ricostruita, divenendo solo nel 1810 la chiesa madre della diocesi. In precedenza la sede vescovile si trovava nell’antica città di Geronda, sita nell’attuale pineta di Fiaiano.
Una spaventosa eruzione distrusse tutta la zona e la chiesa madre si trasferì, con l’intera popolazione ischitana, nell’isolotto del Castello aragonese, fino al 1809, quando le cannonate degli Inglesi, posizionati sulla dirimpettaia collina di Soronzano, distrussero la antica Cattedrale.
Le opere d’arte che si salvarono dal disastroso bombardamento furono trasferite nella chiesa dell’Assunta, che da allora divenne la nuova Cattedrale. Il 1809 è anche l’anno della legge con la quale il Murat sopprimeva molti ordini monastici, incamerandone le ricchezze.
Anche gli Agostiniani si videro costretti ad abbandonare il loro convento, la chiesa di Santa Maria della Scala e tutti i numerosi beni che possedevano sull’isola, dopo essere stati per oltre quattro secoli una autorevole guida spirituale ed una notevole potenza economica, a seguito delle enormi elargizioni di denaro ed immobili fatte dai fedeli, preoccupati della salvezza delle loro anime.
I canonici, una volta espulsi gli Agostiniani, chiesero al sovrano Borbone, divenuto nuovamente re di Napoli, di poter officiare nella chiesa dei frati, che divenne da allora Cattedrale della Diocesi. Il tempio presenta un’ampia facciata barocca con tre ingressi protetti da una robusta cancellata ed un elegante mosaico, eseguito da artisti contemporanei, che risalta sulla porta centrale. L’interno è permeato dalla luce, che prepotentemente illumina ogni angolo delle tre maestose navate, dominate da una cupola di ispirazione bramantesca.
Il pavimento marmoreo è del 1912, frutto di una donazione, mentre in alto, al centro dell’arco trionfale, è presente un’effige in stucco di una donna, che la tradizione popolare indica come il volto della moglie di Pietro Cossa, il fondatore della chiesa.
Di lato si erge un’imponente torre campanaria, costruita nel 1596, allo scopo di offrire un rifugio alla popolazione durante le frequenti incursioni barbaresche.
Diminuite le scorrerie dei pirati la fortezza venne utilizzata, a partire dal 1613, come campanile. Numerosi dipinti, prevalentemente settecenteschi, arricchiscono le pareti della cattedrale.
Tra questi i più importanti appartengono al virtuoso pennello di Giacinto Diano, un solimenesco nativo di Pozzuoli. Essi sono un’Annunciazione, un’Assunzione della Vergine, un’Elemosina di San Tommaso da Villanova, un San Nicola da Tolentino, un’Assunta ed un Sant’Agostino con la Santissima Trinità.
Le tele sono opere giovanili dell’artista e possono essere collocate cronologicamente agli anni 1758-60. Alcune sono datate, come la grande pala d’altare dell’Assunzione della Vergine, nella quale possiamo apprezzare un ampliamento dell’orizzonte spaziale e prospettico, accoppiato a stesure cromatiche calde e rassicuranti.
Spesso gli schemi compositivi replicano opere del Solimena ed anche del De Mura, con non sopiti echi dello scintillante barocco giordanesco, ben leggibili nell’Elemosina di San Tommaso da Villanova. Nelle altre tele predominano sempre gamme chiare di colore, che danno luogo ad un gradevole effetto pittorico di atmosfera quieta e serena, nel pieno rispetto delle inderogabili esigenze di grazia e di devozione.
Alfonso Di Spigna è presente con un suo lavoro posto sul primo altare laterale sinistro: un San Giuseppe di qualità non inferiore alle tante tele che il lacchese ha disseminato nella chiese ischitane. In sacroestia sono presenti altri quadri interessanti, in parte provenienti dall’antica Cattedrale, come una tavola rappresentante San Giorgio che trafigge il drago, attribuita, nelle schede della Soprintendenza a Teodoro d’Errico, nome italianizzato del fiammingo Dirk Hendricksz, un importante pittore attivo nella capitale, autore di affascinanti soffitti cassettonati e prestigiose pale d’altare.
L’opera ischitana viene collocata al penultimo decennio del secolo XVI, un periodo durante il quale l’artista, sotto l’influsso della maniera tosco romana, comincia a far acquistare al suo linguaggio una desinenza italiana. Sulla tela ha in epoca successiva espresso il suo parere il professor De Castris, massimo esperto del Cinquecento, il quale ritiene che la paternità del San Giorgio spetti ad Ippolito Borghese nella prima fase della sua attività, quando nella sua opera si può evidenziare" un ispirato trattamento luministico ed un’accentuata morbidezza cromatica".
Ed una recente ripulitura ha evidenziato, anche se poco leggibile, la sigla H B. Tra le altre tele, una gigantesca, con l’effige di monsignor Onorato Buonocore, uomo pio ed erudito, il quale, esperto d’arte, assegnava un quadro, anch’esso presente in sacrestia, raffigurante San Tommaso orante davanti al crocefisso, al Penni, discepolo di Raffaello ed attivo nel viceregno. Il quadro, naturalmente di ignoto, è stato variamente interpretato da altri studiosi, i quali, aiutandosi con una robusta dose di fantasia, hanno visto in esso l’immagine rovesciata di Alessandro VI, realizzata dal Pinturicchio nell’appartamento Borgia in Vaticano. Senza dimenticare un San Tommaso orante, attribuito dall’Alparone ad un nome di convenzione: Maestro del San Tommaso del Duomo di Ischia, che può essere identificato come ignoto pittore attivo nel primo quarto del secolo XVI, entrato in contatto con la bottega di Pietro Ispano, forse Pedro de Aponte, nome verso cui converge il parere del Leone De Castris, che colloca l’opera entro il 1507,data del ritorno in Spagna dell’artista.
Nella chiesa, oltre ai dipinti, esistono numerose altre opere d’arte, tra le quali, in fondo alla navata sinistra, un raro crocefisso di scuola catalana del 1200, il cui modulo iconografico denota palesemente analogie con alcuni prototipi in area napoletana, come quello del Duomo o della chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli.
Anch’esso proviene dall’antica Cattedrale alla pari del Battistero, ricostruito assemblando differenti pezzi provenienti da monumenti distrutti durante il rovinoso bombardamento del 1809. Alcune cariatidi dello stesso provengono con certezza dalla tomba di Giovanni Cossa. Esse sorreggono un pregiato fonte battesimale dove, nel 1654, venne battezzato Carlo Gaetano Calosirto, che diverrà San Giovanni Giuseppe della Croce, il santo isolano le cui spoglie nel 2003 sono tornate nel luogo natio.
Anche lo spettacolare altare marmoreo, realizzato assieme alla balaustra di stile barocco tra il 1746 ed il 1764, proviene dal vecchio tempio.
Degna di nota, in fondo alla navata destra, è la Cappella del Sacramento, dedicata alla Madonna della Libera, la cui immagine ci sorride maternamente da una tavola trecentesca, oggetto di una storica venerazione, davanti alla quale si piegarono in ginocchio ad impetrare grazia o perdono uomini potenti, grandi dame, principi ed anche regnanti.
Davanti a lei versò implorante le sue lacrime Vittoria Colonna, mentre il suo amato consorte Ferrante d’Avalos teneva alto l’onore della patria sui campi di battaglia ed egli stesso, migliore spada del Cinquecento italiano, tornando a casa incolume, sostava a lungo davanti alla veneranda immagine per ringraziare degli scampati pericoli. In conclusione qualche parola va spesa sull’ordine degli Agostiniani, i quali, negli anni, allargando sempre più le loro proprietà, a seguito di continue donazioni, crearono, oltre al principale, altri conventi in diverse località per poter meglio amministrare un sempre crescente patrimonio.
Sorse così una nuova residenza di monaci a Barano attigua alla chiesa di San Sebastiano, un’altra a Forio vicino alla chiesa del Soccorso, una a Panza, legata alla chiesa di San Gennaro ed un’altra a Campagnano, in corrispondenza della chiesa di San Domenico. Importanza notevole per l’economia isolana fu l’introduzione ad Ischia della coltivazione del baco da seta, voluta dai frati Agostiniani, i quali diedero luogo alla prima piantagione di gelso nei loro terreni, ma, generosamente, fornirono le semente anche ai proprietari dei terreni circostanti, facendo sì che in breve la coltivazione si diffondesse a macchia d’olio in tutta l’isola.
In poco tempo l’ordine accumulò cospicue ricchezze, diventando il vero padrone dell’isola. Tutto finisce nel 1809 con il decreto di soppressione degli ordini religiosi emanato da Gioacchino Murat, il quale volle, astutamente e non per spirito di laicità, impossessarsi delle enormi ricchezze che i religiosi nel regno di Napoli avevano accumulato nei secoli
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