Il piacere della carne passa anche per la tavola ischitana... la grande maialata.
L’arte culinaria rappresenta il trionfo del piacere del palato, puntando sulla qualità dei prodotti, sui profumi e gli aromi; sulla fantasia e la creatività preparatoria dei cuochi, sulla sensibilità dei commensali, sulla piacevolezza complessiva del gusto e dell’ambiente prescelto per... mangiare. Questo trionfo ha un senso se è abbinato alla giusta esaltazione della tipicità del cibo, alla sua carica di verità che arriva da lontano. La cucina tipica, insomma, incarna la personalità di un popolo, l’identità di un territorio e della gente che vi abita, esprimendone le conquiste ed i progressi facilitati dagli incontri e dai viaggi, e dai contatti con altri esempi forti: è tradizione nel senso pieno del termine, dinamico e mobile
articolo tratto dal sito: www.trattoriailfocolare.it
Per l’isola d’Ischia, riscoprire la cucina tipica significa sollevare finalmente il velo su un aspetto della sua insularità che, negli ultimi anni, è rimasto come schiacciato dalla sua stessa fama di località internazionale del turismo, dalla bellezza del suo paesaggio ricco e diversificato, dall’importanza degli ospiti “vip” che l’hanno frequentata e continuano a farlo.
Tradizioni ischitane delle quali fa parte, nel tempo (prima e dopo) di Carnevale, ovviamente anche il maiale, che ci aiuta a sapere... qualcosa in più di noi stessi. Tant’è che, come ricorda l’antropologo Ugo Vuoso, per il contadino il vero Capodanno corrisponde al Carnevale, che è personificato proprio dal... porco: è la stagione breve delle oscenità consentite, delle risate e degli scherzi, degli eccessi alimentari.
Va detto, d’altro canto, che un famoso giudice dell’800, Gaetano Amalfi, ci evidenziava un aspetto... non tanto rimosso dell’ischitanità: l’avarizia. Infatti, gli ischitani di solito ammazzavano il maiale in tempo di Quaresima, per evitare di distribuire le parti dell’animale agli amici, com’era consuetudine.
Questi pezzi di porco, quando venivano distribuiti costituivano dei veri e propri regali, ed erano chiamati ‘u signe, il segno, il dono: a seconda dell’importanza del pezzo donato, si stabiliva l’importanza dell’amicizia. E la coda del porco, ovviamente, finiva sempre a qualche... parente meno nobile. Il maiale, in questa prospettiva, conservava la caratteristica di animale comunitario, aggiunge Vuoso, tant’è che tutti i monaci di Sant’Antonio - anche nel monastero di Ischia - allevavano il maiale lasciandolo libero, con un campanello appeso al collo: alla sua alimentazione provvedeva tutto il contado. Alla fine, a cibarsi del porco, erano naturalmente i monaci, insieme a quanti “ruotavano” nell’orbita del monastero.
Lo Spatuzzi, uno studioso della cucina povera napoletana, nel 1863, scriveva che i poveri erano immensamente ghiotti della carne di porco, in inverno: “Le favorevoli condizioni del nostro suolo per l’ingrasso di questo animale ci fanno avere le sue carni in maggiore abbondanza... Il fegato di porco diviso in pezzi ed avvolto nell’ dello stesso animale con le frondi di lauro in mezzo, si fa arrostire e riesce un cibo immensamente gradito al nostro popolo: non meno però del così detto fatto pure dai visceri del porco, che ridotti in pezzi assai minuti si fanno cuocere in molta sostanza grassa condita con pepe, peperoni fortissimi, foglie di lauro ed altre sostanze aromatiche, per modo che si ha un cibo fortemente stimolante, che nei mesi invernali serve di esca ai bevoni, e non manca mai nelle mense del carnovale”.
Lejla Mancusi Sorrentino sottolinea che, “anche se la carne era un lusso, il maiale è stato sempre diffuso in Campania, basti pensare che fino all’Ottocento erano poche le famiglie che non ne allevassero uno, e chi abitava in città lo metteva all’ingrasso sul balcone o a razzolare davanti alla porta di casa legato con una corda”. Il porco è figlio del cinghiale europeo e del maiale asiatico. E bisogna dare merito a Francesco I di Borbone, se allora si produsse nella nostra regione, il primo di una serie di incroci: quello tra le razze Pelatella e Yorkshire, che diede il via alla crescita della struttura fisica del porco.
Lo stesso... porco che, in almeno duemila esemplari, ancora oggi viene allevato nella nostra splendida isola. «Pochi animali domestici - scrive Alberto Capatti - hanno indotto, come il maiale, a considerazioni sul loro carattere onnivoro e sulla loro specie mangereccia. Nessuno ha suscitato una letteratura morale tanto copiosa. Basta evocarlo, per ritrovarsi nelle malebolge del sesso... sbracati a tavola... Vittima predestinata delle culture tradizionali, ha sempre prestato il proprio corpo ai vizi umani, servendo da controfigura alle voglie di carne».
E torniamo indietro. Marco Terenzio Varrone, un intellettuale-agronomo dell’antica Roma, ricordava come allora fosse diffuso un detto: “il suino è stato donato dalla Natura per banchettare”. Del resto, nella nostra Penisola, sembra che già per gli Etruschi quella suina fosse la principale fonte alimentare di carne. Poi i romani ne perfezionarono l’allevamento: e non mancano citazioni, disquisizioni, suggerimenti dai grandi Columella (naturalista ante-litteram), Apicio (che chef, a quei tempi!) e l’eccellente, intrigante Marziale, poeta sopraffino e malizioso narratore in versi di pregi e difetti dell’umanità latina.
Il maiale era comunque un cibo per pochi. Lo apprezzavano anche i popoli germanici, i Barbari, che li tenevano allo stato brado nei boschi: il rapporto tra uomini e animali, con loro, è diventato complementare, e quando invasero l’Italia, la loro “agroticità” si diffuse ovunque. Per secoli, così, dobbiamo immaginare questi animali grufolanti intorno alle abitazioni, nutriti con gli scarti o con cibi non utilizzati nell’alimentazione umana. E ci viene in mente qualcosa di molto vicino anche alle attuali consuetudini campagnole d’Ischia.
Ma ora è tempo di trasferirci in tavola.
Lo facciamo attingendo ad una ricetta dell’abate Vincenzo Corrado che, nel 1778, pubblicò a Napoli il “Cuoco galante”, che ebbe allora un successo incredibile, con ristampe molteplici Era il primo testo di cucina napoletana, della quale rivalutò la tipicità.
Ed ecco, allora, il “Porchetto da latte arrostito”, del nostro don Vincenzo, che in pochi tratti e col fraseggiare d’allora, ci sintetizza tutto quanto finora esposto:
“Ingredienti: 1 porco, latte, olio acqua, sale condito, pane grattato, semi di finocchio.
Benché il porco sia animale immondo, ha però la sua carne saporitissima, ed è più gustosa di qualsivoglia altra carne; anzi par che senza quella, tutte le altre abbiano dell’insipido, e perciò se ne fa molto uso, non solo nelle cucine de’ Grandi, ma ancora di mediocre condizione;
e quando questa mancasse, mancherebbe l’esca più dilettevole de’ nostri palati. E siccome innumerabili sono i diversi sapori della carne porcina, così infiniti sono le maniere di cuocerla, e condirla.
La stagione del porco è nell’inverno, e tanto più riesce di gusto, quando fa più freddo. Il porchetto di latte è ottimo a cuocersi arrostito, il quale nel girar che farà, si ungerà con olio acqua e di sale condito, e prima di servirlo se le farà una crosta con pane grattato, e polvere di semi di finocchio”.
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