La montagna simbolo del sacro, la vetta come luogo sublimato di elevazione spirituale, l’ascesi vissuta lontano dal mondo. Anche la faccia mistica dell’isola di Ischia la troverete in cima. La raggiungerete scalando l’Epomeo, qui, nel punto più alto, la chiesa e l’eremo di San Nicola, pietra tra la pietra estremo confine tra terra e cielo
Articolo tratto da “Ischia sacra. Guida alle chiese” di Achille della Ragione
Il complesso di San Nicola, sulla vetta del monte Epomeo, rappresenta, nel panorama italiano, uno dei più significativi esempi di architettura rupestre. Il tempio di pietra si mimetizza armonicamente con il paesaggio, artificio sfruttato dai primi frequentatori del luogo, che cercavano un rifugio sicuro alle continue invasioni saracene, un vero flagello durato secoli e, nello stesso tempo, pregno di significati simbolici, come sottolineato dal Nicoletti Manfredi, che parlò di "inviscerata da percorsi che ricalcano quelli della vita".
Al complesso si può giungere anche da Barano, ma la via più diretta è da Fontana, percorrendo, a piedi o a dorso di mulo, un ripido sentiero che parte nei pressi della chiesa parrocchiale. La chiesa, scavata nel tufo, esisteva già nel 1459, come veniamo a conoscenza dal racconto del celebre Pontano, mentre le cellette del convento furono costruite nel 1587.
Fu la nobildonna Beatrice Quadra a volerne fare un ritiro per monache, le quali però non potettero resistere a lungo, per la rigidezza del clima, accoppiata all’asperità dei luoghi, trovando in seguito una nuova, più confortevole, sede nel Castello. Nell’eremo vissero poi celebri anacoreti, come fra Giorgio Bavaro morto in odore di santità e Giuseppe d’Argouth (1704-1778), già comandante della guarnigione militare di stanza sull’isola, il quale, per esaudire un voto fatto a San Nicola, gettò alle ortiche lo schioppo per ritirarsi a vita eremitica con dodici fidati compagni, divenuti come lui frati.
L’episodio che portò alla conversione era capitato un giorno, mentre il D’Argouth stava inseguendo due malviventi, che, dopo aver violentato alcune fanciulle, cercavano rifugio tra le asperità dell’Epomeo. Colto di sorpresa dai due, che gli tesero un agguato in una stretta, il prode soldato si vide perduto, ma chiese aiuto al suo santo, che, evidentemente, intervenne in soccorso. Lì dove sarebbe rimasto il suo corpo da morto, se non vi fosse stata intercessione divina, lì avrebbe trascorso i suoi restanti giorni da vivo se fosse stato esaudito, e così fu.
Il novello frate provvide all’acquisto dei terreni vicini e commissionò numerosi lavori nella chiesetta, tra cui quelli per l’altare maggiore. Oggi l’antico convento è stato trasformato in ristorante e locanda ed è impossibile leggere, per le trasformazioni avvenute, la suddivisione originaria, è però possibile, con modica spesa, trascorrere la notte in celle spartane a picco su di un panorama mozzafiato, da godere alle prime luci dell’alba.
Nell’interno della chiesa, la zona del coro giace completamente abbandonata ed anche mura, volte, intonaci e stucchi hanno risentito gravemente dell’umidità. Sono però in discreto stato di conservazione alcune parti, che passiamo a descrivere. Sulla parete di fondo, risalente alla metà del Settecento, si trova la cappella delle reliquie, che occupano un vano dell’altare scompartito in cento nicchie, contenenti vasetti, in vetro soffiato, con antichi resti umani di santi e beati.
Di lato, una statua di San Giuseppe in terracotta policroma, mentre, sulla parete destra dell’altare, un Cristo morente di autore ignoto di area partenopea, influenzato dalla locale plastica seicentesca. L’altare maggiore, di un buon marmoraro campano, presenta due reggimensola decorati da volute, che inquadrano il paliotto ornato al centro da un rilievo, incorniciato da una corona di alloro con simboli vescovili. In alto un ciborio adornato da cherubini sormontato da un baldacchino.
Lateralmente due coppie di cherubini congiunti da una mensola. L’arco sull’altare maggiore presenta una statua di San Nicola di Bari con il fanciullo coppiere, datata 1500, opera di un ignoto scultore campano, non influenzato dalla lezione dei fratelli Malvito, attivi a Napoli in quegli anni. La scultura è collocata in una nicchia scandita da coppie di lesene, con capitelli compositi ed in alto una elegante conchiglia.
Costituisce la più antica testimonianza dell’eremo a noi pervenuta e viene citata, con parole elogiative, in un coevo poemetto del Pontano. Di un certo pregio il pavimento della zona absidale, esito di ignoto maiolicaro campano attivo nel Settecento; i tasselli, a quattro per quattro, compongono un fiore con profilatura plurilobata ed una stella a spicchi bianchi e neri, una tipologia molto diffusa sull’isola, dove possiamo reperire esempi consimili in Santa Restituta e nella chiesa del Soccorso.
Il pavimento della navata e della cappella delle reliquie è invece identico a quello della prima cappella destra della chiesa di San Francesco d’Assisi, datato 1843. Formato da mattonelle con fiori su fondo giallo, alternate a quadrelli di cotto, mentre l’impiantito è delimitato da una fascia di racemi. Per finire, a terra, a metà della navata, è poggiata la campana, dopo la rovina del campanile.
Eseguita dal fonditore Salvatore Nobili, nei primi anni del Novecento, è decorata in basso con un motivo floreale, mentre in alto presenta un giro di archetti a sesto acuto intrecciati. Nel centro di Fontana esisteva la chiesa della Beata Vergine, oggi sconsacrata ed adibita a falegnameria.
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