La chiesa di Sant’Antonio alla Mandra

Passeggiando per l’antica strada che costeggiando il mare porta da Ischia centro ad Ischia ponte, ci si imbatte, sulla destra, in una salita abbastanza ripida, che porta ad un bel convento: la chiesa di Sant’Antonio. In questa chiesa - che sorge nella zona chiamata Mandra – riposa il corpo di San Giovan Giuseppe della Croce, il santo patrono ischitano

articolo tratto dal saggio di Achille della Ragione “Le chiese di Ischia”

Un tempio, intitolato a S. Maria delle Grazie, sorgeva nella località detta La Mandra, perché colà stanziavano le greggi.

La terribile eruzione dell’Arso, avvenuta nel 1301, con la colata lavica che, dalla zona attualmente di Fiaiano, giunse a lambire il mare, lo distrusse completamente. La chiesa era stata costruita nel 1225, ancora vivente San Francesco, ed il convento era il più antico, non solo dell’isola, ma di tutta la Campania.

La popolazione, come voto per lo scampato pericolo, chiamò nell’isola i Frati minori e ricostruì l’edificio sacro nello stesso luogo. Nel 1558 esso appare nel rilievo eseguito dal geografo Cartaro, pubblicato nel libro dello Jasolino.

Nel 1743 furono eseguiti, ad opera di frate Garofalo, ampi lavori di ristrutturazione, completati nel 1773.

Nel 1806, in virtù delle norme emanate dal Murat, che soppressero ed incamerarono i beni degli ordini religiosi, i Frati furono mandati via e, dopo pochi anni, nel 1810 subentrarono le monache Clarisse, anche loro espulse dal monastero di Santa Maria della Consolazione su al Castello, dove vivevano da oltre quattro secoli.

Infine nel 1911 anche loro andarono via e nel 1919, richiamati dall’Amministrazione comunale, divenuta proprietaria della struttura, ritornarono i Francescani, che tuttora la officiano, i quali, oltre ai loro novizi, accolsero molti giovani, fondando una scuola tecnica.

La facciata della chiesa è movimentata dallo snodo semicircolare delle due rampe d’accesso di scale, mentre in alto la profonda arcata centrale è ingentilita ai lati con le piccole finestre modellate a serliana. Nell’interno è presente una sola navata, intersecata da pilastri, che si concludono con ampi archi. La volta a botte è sormontata da una piccola cupola, allogata all’incrocio della navata con il transetto.

L’altare principale è impreziosito da marmi policromi, esso fu realizzato nel 1740, quando fu cambiato l’antico titolo della chiesa nell’attuale di Sant’Antonio e fu invertito l’orientamento della navata. Al centro, ben visibile, l’emblema dell’ordine francescano.

Di lato la zona conventuale ha ospitato nei secoli eminenti personalità in odore di santità, come padre Bonaventura da Potenza, del quale si addita ancora la cella. Oggi è occupata dalla Biblioteca Antoniana, fondata dal monsignor Onofrio Buonocore e ricca di oltre 20.000 volumi e da una sala conferenze, dove è conservato un raro e prezioso dipinto, capolavoro del pittore transalpino Jules Le Fevre, rappresentante, da giovane, Vittoria Colonna. Nelle sale di consultazione della biblioteca troneggia un affresco, recentemente restaurato dal maestro Mazzella, con la figura di un pontefice, identificato da alcuni per "l’indigeno" Giovanni XXIII, ma più probabilmente trattasi, viceversa, di Benedetto XIV. Nella chiesa è sepolta la serva di Dio Suor Maria Angela della Croce ed il martire San Esuperanzio, il cui corpo fu portato dalle Clarisse.

Dal 30 settembre 2003, per la gioia dei fedeli ischitani, un nuovo tesoro arricchisce la chiesa: il corpo del santo protettore dell’isola, San Giovanni Giuseppe della Croce, ritornato finalmente nel luogo natio, dopo essere stato sepolto per 250 anni nella chiesa di Santa Lucia al Monte a Napoli, dove morì nel 1734. Egli, nato con il nome di Carlo Gaetano Colasirto, dedicò tutta la sua vita alla meditazione ed all’apostolato.

Divenuto ministro provinciale dell’ordine, costituì una nuova suddivisione religiosa, composta di alcantarini italiani, che si separarono da quelli spagnoli. Esaminiamo ora le tele esposte all’interno. Sul primo altare lungo la navata sinistra è conservata una Immacolata, rappresentata in piedi sulle nubi, in atteggiamento orante, con ai lati quattro putti, attribuita al catalogo del Di Spigna, per le stringenti analogie con la Natività e l’Annunciazione di Visitapoveri e con l’eponima tela conservata a Barano in San Sebastiano.

Segue poi una coppia di dipinti del pittore lacchese: un San Francesco che riceve le stimmate ed una Visione di Sant’Antonio di Padova. Tra le ultime opere dell’artista, collocabili al 1775-80, sono contraddistinte da un cromatismo terroso, quasi da pastello, con una dominanza dei toni rosei e, soprattutto nella seconda tela, da un certo compiacimento di maniera. Sulla parete destra dell’altare trova posto un’altra tela del Di Spigna: un’Estasi di San Giuseppe da Copertino, nella quale il Santo levita in estasi davanti ad un’immagine della Vergine, mentre tre donne ed un fanciullo assistono attoniti alla scena. L’Alparone la considerava coeva alle altre due trattate in precedenza, ma, per la tavolozza diversa, è più opportuno considerarla antecedente. Nella tela in esame sono accentuate le lumeggiature e molto evidente risulta la caratterizzazione delle donne agghindate con i caratteristici abiti delle ischitane di quel periodo.

Senza dubbio una delle più riuscite opere dell’artista. Sull’altare maggiore troneggia una Madonna col Bambino, incoronata da due putti, con a sinistra San Francesco ed a destra Santa Chiara. Fu portata dalle Clarisse, che la conservavano nella loro chiesa, sita sul Castello. Stranamente nelle schede della Soprintendenza viene ritenuta opera accademica denotante i modi di Andrea Vaccaro, è, a nostro parere, autografa del maestro con richiami alle delicatezze di un Pacecco De Rosa, in particolare nel volto dolcissimo della Vergine. Passiamo ora alla illustrazione del convento, normalmente non visitabile, ma, grazie alla gentilezza dei frati, aperto a semplice richiesta. Nell’atrio troviamo una coppia di dipinti, un’Addolorata ed una Gloria dell’Immacolata con Santi, proveniente dalla sconsacrata chiesa dell’Immacolata sul Castello, attribuibile a Gennaro Migliaccio, un poco noto artista isolano, che, nel 1769, sigla una Pietà in San Francesco Saverio a Forio. Nella stanza adiacente un’altra Immacolata e Santi, di mano di un ignoto pittore, che si rifà all’acclarata iconografia controriformata diffusa all’epoca nell’area napoletana da Giovan Bernardo Lama.

La tela è tardo cinquecentesca, per cui le figure poste in basso di San Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610 e di San Nicola da Tolentino sono aggiunte posteriori. Nel corridoio si può ammirare una statua lignea policroma, un Cristo a mezzo busto, caratterizzato da un intenso espressionismo, assegnato dal Borrelli agli anni giovanili di Giacomo Colombo. La scultura, come riferisce il Buonocore, è stata donata agli inizi del Novecento e probabilmente proviene da qualche chiesa napoletana.

Essa è pervasa da un sentimento drammatico e sembra concepita come un personaggio di una sacra rappresentazione, che veniva utilizzato nelle processioni, soprattutto nella Settimana Santa, abitudine diffusa dalla religiosità spagnola.

E giungiamo così al capolavoro conservato nel convento: un polittico smembrato, proveniente dalla vecchia Cattedrale su al Castello, oggi completamente restaurato e restituito all’antico splendore.

Le tavole rappresentano:

  • San Giovanni Battista e San Tommaso d’Aquino
  • Santa Lucia a mezza figura
  • Madonna delle Grazie e committenti
  • Maddalena a mezza figura
  • San Ludovico da Tolosa e San Francesco
  • Santa Caterina
  • Santa Chiara

Le tavole provengono da un polittico smembrato nel secolo XVIII, proveniente dall’antica Cattedrale e le figure delle sante costituivano la predella. Il polittico è stato variamente attribuito, dalla Navarro a Pietro Ispano, dal Previtali a Simone da Firenze, mentre il Leone De Castris propende, prudentemente, per un’artista ignoto locale, il quale, intorno al 1515, assembla armonicamente ascendenze umbre, accenti lombardi e contiguità con Andrea da Salerno. Per la collocazione cronologica dell’opera possono fare da guida le figure delle due committenti, una di mezza età in abiti vedovili, Costanza d’Avalos, governatrice dell’isola dal 1503 al 1528, l’altra più giovane da identificare in Vittoria Colonna, sposa nel 1509 del marchese d’Avalos. Conoscendo le date di nascita delle due donne, 1460 e 1490, si può ragionevolmente collocare l’opera verso la metà del secondo decennio del secolo XVI.

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